Addio a Bernardo Bertolucci

Addio a Bernardo Bertolucci

Tra i più disparati e differenti processi creativi che a loro modo possono rispecchiare gli sviluppi del cinema nella seconda metà del Novecento, lo stimolante e sfolgorante itinerario di Bernardo Bertolucci, da poco scomparso e da tempo non a caso considerato tra i registi italiani più noti, acclamati e premiati anche all’estero, pare quasi raccontarne in maniera romanzesca e per certi versi esemplare le continue, sfaccettate e itineranti evoluzioni.

Infatti, passando dalle sperimentazioni alle opere d’autore per poi alternare progetti a basso costo a grandi produzioni da premio, il tutto su uno spettro linguistico e contenutistico che dai caratteri provinciali si allarga ad una dimensione cosmopolita, quello del grande regista è un percorso che può rispecchiare il tentativo di esplorare o rappresentare la complessa eterogeneità del mondo attraverso le potenzialità evocative del mezzo filmico. Nell’articolarsi tra perpetuo spirito cinefilo e continua ricerca personale, il suo cinema così internazionale ma al tempo stesso legato alle sue origini, sempre raffinato eppure non estraneo alla tradizione nazional-popolare, elabora un’attenta e dinamica configurazione visiva tenendo però spesso presente un’influenza letteraria radicata già nell’ambiente culturale e familiare in cui si formò (non a caso, diversi suoi film furono appunto adattamenti). Infatti, prima del fratello minore Giuseppe (anch’egli poi divenuto regista) e della seconda moglie Clare Peploe (stimata autrice inglese), in tale contesto culturale si mosse anche il padre, poeta vicino a scrittori come Moravia, Elsa Morante e soprattutto Pier Paolo Pasolini, del quale Bernardo (a sua volta interessato alla poesia) diviene presto assistente, spostandosi dalla natia Parma alla capitale e iniziando così a muovere i primi passi nel cinema: è infatti proprio il grande intellettuale a firmare il soggetto alla base de La Commare Secca, film sul sottoproletariato delle borgate romane con il quale nel 1962 Bertolucci (a soli 21 anni) esordisce alla regia, facendosi subito notare per l’abilità di orchestrare una struttura narrativa assai complessa in una messa in scena da cui subito traspare la sua intenzione di contribuire all’affermazione di un nuovo orizzonte culturale; infatti, nel successivo Prima della Rivoluzione (anch’esso presentato al festival di Venezia) sembra far coincidere la ricerca di identità del protagonista, snodata come un romantico romanzo di formazione, con quella intrinseca a livello stilistico fortemente influenzata dalle tecniche della Nouvelle Vague, riuscendo già ad imporsi come uno dei più interessanti rappresentanti della nuova generazione di giovani cineasti italiani degli anni Sessanta: racconto di un amore impossibile costruito sul modello de La Certosa di Parma di Stendhal, nel suo lirico connubio tra passione e ideologia il film (nel quale recita la sua prima moglie Adriana Asti) diventa appunto il suo manifesto cinematografico, consacrandolo come narratore delle mutazioni e dei contrasti della realtà borghese. Successivamente, ormai contagiato dall’impeto del movimento avanguardista dell’epoca, il regista decide quindi di tentare nuove esperienze: così, oltre a cimentarsi nella realizzazione di un documentario televisivo in tre parti e di un paio di cortometraggi, in quel periodo dirige il non a caso spiccatamente sessantottino Partner (complessa riflessione sulle contraddizioni intellettuali ispirata a Il Sosia di Dostoevskij) per poi collaborare insieme a Dario Argento allo sviluppo del soggetto del capolavoro di Sergio Leone C’era una Volta il West.

Nel 1970 torna invece in un terreno a lui più congeniale con ben due pellicole di rilievo, ovvero il sofisticato Strategia del Ragno (prodotto dalla RAI e ispirato a un racconto di Jorge Luis Borges) e soprattutto il celebre Il Conformista con Jean-Louis Trintignant e Stefania Sandrelli (per il quale l’autore riceve una candidatura all’Oscar per la sceneggiatura), entrambi caratterizzati dalle ormai tipiche implicazioni politiche e psicanalitiche: con il primo Bertolucci torna nella provincia emiliana per continuare il suo percorso di autoanalisi, seguendo il protagonista nel suo viaggio quasi onirico di scoperta nella terra natia per compiere così appunto una nuova riflessione sull’influenza della figura del padre ma anche sulla propria condizione di intellettuale marxista (aspetti che diventeranno una costante del suo cinema); nel secondo, che, pur incompreso alla sua uscita, resta tra i più personali adattamenti di un romanzo di Moravia, il regista rielabora tali risvolti in forma più coerente e matura dimostrando inoltre una grande inventiva stilistica anche sul piano figurativo, coadiuvato in ciò dai preziosi contributi tecnici del direttore della fotografia Vittorio Storaro e del montatore Kim Arcalli (con i quali inizia un lungo e fruttuoso sodalizio). La fama internazionale arriva però nel 1972 con il celeberrimo Ultimo Tango a Parigi, nel quale l’autore delinea un percorso di ossessione e autodistruzione fondato sulla dialettica tra amore e morte mettendo in scena un’ambigua storia di cruda passione tra due sconosciuti interpretati da una giovane Maria Schneider e un maturo, superbo Marlon Brando; vittima di una violenta censura a causa della sua potente carica trasgressiva, il controverso e scandaloso film fu sequestrato e coinvolto in una lunga e clamorosa vicenda giudiziaria che si trascinò fino al 1987, quando finalmente fu riabilitato da una sentenza che superava quella precedente di oscenità a cui era seguita la cosiddetta condanna “al rogo”; tali vicissitudini avevano però nel frattempo contribuito a rendere la disdegnata quanto osannata opera un enorme successo internazionale, coronato da due importanti candidature agli Oscar (a Bertolucci come miglior regista e a Brando come miglior attore).

Tale popolarità consente quindi all’autore di realizzare l’epico Novecento (1976), monumentale affresco in due atti interpretato da un cast di grandi nomi del cinema internazionale (da Robert De Niro a Gérard Depardieu, da Burt Lancaster a Donald Sutherland, fino a Alida Valli e Stefania Sandrelli) nel quale si rievocano cinquant’anni di Storia padana (dalla fine dell’Ottocento alla caduta del fascismo): nel cercare di combinare il respiro da grande film hollywoodiano ad un realismo da cinema sovietico, il regista gioca qui tutte le sue carte (tornando in ambientazione emiliana per muoversi ancora tra Marx e Freud e concentrarsi nuovamente sulle implicazioni socio-politiche del racconto), rischiando talvolta la ridondanza ma comunque distinguendosi per audacia ed ambizioni. A questo punto, sebbene i due film susseguenti (ovvero La Luna con Jill Clayburgh e La Tragedia di un Uomo Ridicolo con un grande Ugo Tognazzi premiato a Cannes) dimostrino per stile e tematiche un avvicinamento al difficile contesto italiano dell’epoca, Bertolucci è ormai un autore di richiamo internazionale, interessato ad applicare una costante ricerca stilistica ad una messa in scena di grande spettacolarità; esemplare a questo proposito è il successivo ed epocale L’Ultimo Imperatore (1987), divenuto giustamente uno dei suoi film maggiormente celebri e rappresentativi: nel mettere in scena la vera storia di Pu-Yi, nato imperatore e morto cittadino comune della Repubblica Popolare Cinese, Bertolucci dimostra infatti notevole abilità ed inventiva nella spettacolarizzazione degli eventi storici, evitando le insidie del biopic e del kolossal e realizzando uno dei suoi lavori più accademici ma al contempo più armoniosi e personali, ricco di risvolti tematici a lui cari e sorretto da un’estrema ricercatezza formale e visiva; produzione dai grandi mezzi impreziosita da contributi di tecnici italiani di prim’ordine (dall’immancabile Storaro allo scenografo Scarfiotti fino alla montatrice Gabriella Cristiani), la monumentale opera è un successo internazionale, arrivando a trionfare agli Oscar dove si aggiudicò ben nove premi (tra cui miglior film), di cui due a Bertolucci per miglior regia e sceneggiatura non originale (scritta dall’autore insieme al cognato Mark Peploe).

Ormai definitivamente consacrato come un regista di fama e importanza globale, successivamente Bertolucci rimane quindi all’estero per continuare a esplorare le diverse forme dell’immaginario internazionale, realizzando infatti gli altri due film che insieme al precedente compongono appunto la cosiddetta “trilogia dell’altrove”, ovvero Il Tè nel Deserto e Piccolo Buddha (anch’essi fotografati da Storaro e musicati da Ryuichi Sakamoto): il primo (tratto al romanzo di Paul Bowles e interpretato da John Malkovich e Debra Winger) è un melodramma romantico ma non sentimentale in forma di tragico viaggio interiore svolto con un approccio intimista che si contrappone alla vastità della pur avvolgente ambientazione marocchina; nel secondo (con protagonista Keanu Reeves) indaga invece i fondamenti e la spiritualità del buddismo tra Stati Uniti, Tibet e India attraverso una storia su doppio binario questa volta libera da elementi trasgressivi o tormentati conflitti per la quale adegua quindi il suo approccio optando per un coerente ed ispirato tono quasi da favola contemporanea. Tornato negli anni Novanta in Italia e a produzioni meno fastose, con Io Ballo da Sola delinea con leggerezza la ricerca di identità di un’inquieta adolescente americana (interpretata da Liv Tyler) durante un soggiorno estivo nel Chianti senese, mentre con L’Assedio (storia di una nuova ossessione amorosa girata principalmente in interni) si dimostra in grado di applicare la propria visione anche a racconti minimali. Nel 2003 torna invece nuovamente all’amato contesto parigino e sessantottino con The Dreamers – I Sognatori, storia del rapporto sempre più stretto e trasgressivo tra tre ragazzi legati dalle stesse passioni (tra cui cinema e politica) che per approccio e atmosfere riconduce a Ultimo Tango a Parigi. A quel punto, dopo aver ricevuto il Leone d’Oro alla carriera al festival di Venezia, la Palma d’Oro onoraria al festival di Cannes e una stella sulla Hollywood Walk of Fame, la malattia che da tempo lo assedia (costringendolo su una sedia a rotelle) inizia ormai purtroppo a prendere il sopravvento; costretto infatti ad abbandonare alcuni progetti in preparazione, solo nel 2012 riesce a girare (pur con difficoltà) l’intimista quanto intenso Io e Te (tratto dal romanzo di Niccolò Ammaniti e imperniato sull’incontro di solitudini alla base del rapporto tra un fratello e una sorella in fuga dal mondo), che rimane il suo ultimo film: infatti, Bernardo Bertolucci è morto nella sua casa di Trastevere il 26 novembre, all’età di 77 anni, lasciando un grande vuoto dopo aver segnato profondamente il cinema non solo italiano.

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