Premi Oscar, le nomination: tutti i candidati della 93esima edizione

Premi Oscar, le nomination: tutti i candidati della 93esima edizione

Con un ritardo di oltre due mesi rispetto alle edizioni precedenti, circostanza causata dalla pandemia, che com’è noto ha avuto ripercussioni anche sull’industria cinematografica (facendo slittare o rimbalzare su piattaforme streaming le uscite dei film in cartellone), sono state finalmente annunciate le candidature della 93esima edizione dei premi Oscar.

E in un’edizione appunto certamente non convenzionale per tempi e modalità di svolgimento, ad ottenere il maggior numero di candidature è proprio un film targato Netflix, ovvero Mank di David Fincher, film sulla genesi del capolavoro Quarto Potere che guida in numeri la competizione con ben 10 nomination (tra cui miglior film, regia, miglior attore a Gary Oldman e attrice non protagonista ad Amanda Seyfried); dallo stesso colosso streaming è inoltre prodotto e distribuito anche un altro titolo di rilievo, ovvero Il Processo ai Chicago 7, seconda opera da regista del già premiato sceneggiatore Aaron Sorkin, che ottiene invece 6 candidature (incluse quelle per il premio più importante e per l’ottimo script originale); ma ad ottenere lo stesso numero di nomination (tra cui miglior film, regia e sceneggiatura) sono inoltre due prodotti indie a loro volta molto quotati ed entrambi realizzati da autori di origine orientale, ovvero il piccolo-grande Minari di Lee Isaac Chung (film prodotto e ambientato negli USA ma diretto da un regista di origine sudcoreana come gli interpreti principali, impegnati a recitare prevalentemente nella loro lingua madre) e l’immancabile Nomadland di Chloé Zhao (filmmaker cinese già nota e attiva negli USA), interpretato dalla grande Frances McDormand e considerato tra i principali favoriti (specialmente dopo le vittorie a Venezia e ai Golden Globe). E se il sorprendente Una Donna Promettente, ottimo esordio alla regia di Emerald Fennell, conquista anche l’Academy, ricevendo 5 candidature (tra cui miglior film, regia, attrice e sceneggiatura), a quota 6 troviamo inoltre altri 3 film ben accolti che completano il gruppo di titoli in corsa per il premio principale (distinguendosi anche per la duplice presenza nelle categorie della recitazione), ovvero The Father di Florian Zeller (con protagonisti Anthony Hopkins e Olivia Colman), Judas and the Black Messiah di Shaka King (con Daniel Kaluuya e Lakeith Stanfield) e Sound of Metal di Darius Marder (targato invece Amazon Studios e interpretato da Riz Ahmed).

Segue a ruota, a sua volta con 5 candidature, il teatrale Ma Rainey’s Black Bottom, tratto dalla pièce di August Wilson e prodotto da Denzel Washington, che schiera i due notevoli protagonisti Viola Davis e Chadwick Boseman (il quale, recentemente scomparso, ottiene una meritata nomination postuma), mancando però a sorpresa la candidatura per miglior film; stessa sorte per altri due titoli piuttosto quotati, ovvero il buon western contemplativo di Paul Greengrass Notizie dal Mondo (che ottiene un più contenuto poker di nomination tecniche) e soprattutto il ben accolto Quella Notte a Miami…, debutto da regista dell’attrice Regina King, che invece concorre inaspettatamente soltanto a 3 premi (di cui uno per la sceneggiatura e due per l’interprete Leslie Odom, Jr., candidato infatti non solo come migliore attore non protagonista, ma anche per la miglior canzone). Tris di designazioni anche per l’apprezzato cartoon Pixar Soul (grande favorito nella categoria dedicata ai film d’animazione e candidato anche per miglior colonna sonora e suono), mentre tra i titoli a contendersi il premio per miglior film internazionale spiccano il rumeno Collective (in gara anche come miglior documentario) e soprattutto il danese Un Altro Giro di Thomas Vinterberg, che a sorpresa riceve una seconda, importante nomination per la miglior regia; due candidature anche per il pur non esaltante Elegia Americana di Ron Howard (che fa ottenere alla grande Glenn Close, ancora incredibilmente mai premiata, la sua ottava nomination) e la commedia Borat – Seguito di Film Cinema, ben accolto sequel del film del 2006 che infatti concorre non solo (come il precedente) al premio per la miglior sceneggiatura (co-firmata dal protagonista Sacha Baron Cohen, candidato anche come miglior attore non protagonista per il già citato Il Processo ai Chicago 7), ma anche a quello per miglior attrice non protagonista alla giovane interprete bulgara Maria Bakalova (coraggiosa e irresistibile scoperta).

Ma a ricevere una doppietta di menzioni tecniche, oltre a Emma. (nuovo, riuscito adattamento del romanzo di Jane Austen), Mulan (versione in live-action dell’omonimo cartoon del 1998) e Tenet di Christopher Nolan (non apprezzato quanto i suoi film precedenti), è anche Pinocchio di Matteo Garrone, che fa ottenere una nomination a tre italiani già molto apprezzati in patria, ovvero Dalia Colli, Francesco Pegoretti (candidati al premio per miglior trucco e acconciature, insieme all’inglese Mark Coulier) e Massimo Cantini Parrini (a sorpresa in corsa per la statuetta ai migliori costumi). E a tal proposito, in questa edizione si fa notare anche una quarta e ben nota presenza italiana, ovvero la cantautrice Laura Pausini, che dopo la vittoria del Golden Globe può puntare ora anche all’Oscar, ottenendo infatti una candidatura per la canzone “Io Sì (Seen)”, scritta insieme alla celebre e già pluricandidata Diane Warren per il film La Vita Davanti a Sé, diretto da Edoardo Ponti e interpretato da Sophia Loren.

Infine, se Da 5 Bloods di Spike Lee, The Midnight Sky di George Clooney e The United States vs. Billie Holiday di Lee Daniels ricevono soltanto una candidatura (rispettivamente per miglior colonna sonora, migliori effetti visivi e migliore attrice protagonista ad Andra Day), tra i film esclusi completamente dalla competizione spiccano invece soprattutto l’applaudito First Cow di Kelly Reichardt, il solido The Mauritanian di Kevin Macdonald, il sorprendente Sto Pensando di Finirla Qui di Charlie Kaufman e la commedia On the Rocks di Sofia Coppola.

In tutto ciò, nonostante appunto alcune più o meno opinabili omissioni, nel complesso risulta quindi piuttosto apprezzabile tale selezione condotta da un’Academy che (forse sulla scia dell’epocale svolta dello scorso anno, con il trionfo del capolavoro coreano Parasite) pare dimostrare maggiore considerazione alla qualità internazionale ed inclusiva in un’edizione che infatti si distingue inoltre per un numero mai così alto non solo di presenze femminili (con la cinquina dei migliori registi che per la prima volta include 2 donne), ma anche di candidati non bianchi (di cui un totale di 9 nelle 4 categorie della recitazione, altro record).

Ma vediamo ora le nomination nel dettaglio: di seguito, ecco infatti l’elenco completo delle candidature in tutte le 23 categorie, accompagnato da approfondimenti, considerazioni, curiosità e alcuni pronostici sugli eventuali vincitori, che saranno annunciati il 25 aprile durante l’annuale cerimonia di premiazione.

Come suddetto, sono 8 i film che quest’anno si contenderanno il premio più importante. Tra questi, pur guidando la competizione con la sua decina di candidature, l’ambizioso Mank ha tuttavia diviso la critica statunitense e non ha particolarmente brillato nel circuito dei premi, dove ad imporsi è stato invece soprattutto l’inarrestabile Nomadland (coinvolgente e poetico road-movie scritto, diretto, co-prodotto e montato dall’apprezzata filmmaker cinese Chloé Zhao), già premiato appunto con diversi riconoscimenti (tra cui il Leone d’Oro al festival di Venezia) e considerato quindi da molti il favorito alla vittoria (specialmente dopo aver trionfato non solo ai Producers Guild Awards e ai Critics’ Choice Awards, ma anche ai BAFTA e ai Golden Globe); ma in lizza per la statuetta principale, oltre ad un’altro prodotto indie molto apprezzato dalla critica, ovvero il commovente Minari (a sua volta diretto da un regista di origine orientale e già trionfatore al Sundance Film Festival), troviamo inoltre un titolo non ugualmente osannato ma forse più in linea con la classica tradizione dell’industria hollywoodiana (fattore che potrebbe giovare nella corsa agli Oscar), ovvero il solido legal-drama Il Processo ai Chicago 7, diretto dal noto sceneggiatore Aaron Sorkin, che pur mancando a sorpresa la candidatura per la miglior regia resta comunque molto ben posizionato (specie dopo la vittoria per miglior cast ai SAG Awards); assolutamente da non sottovalutare è però anche la tosta e trascinante dramedy Una Donna Promettente, sorprendente opera prima di Emerald Fennell, che con le sue 5 candidature di rilievo continua a mietere premi e consensi, imponendosi con decisione anche nella corsa all’Oscar. Infine, a contendersi la statuetta più ambita troviamo inoltre (con 6 nomination a testa) non solo altre due notevoli e applaudite opere prime come l’intenso Sound of Metal e l’intimista The Father, ma anche il potente Judas and the Black Messiah, che con merito supera le aspettative e stupisce ottenendo a sua volta una doppia candidatura nelle categorie della recitazione (portando inoltre per la prima volta un team all-black di produttori, tra cui il filmmaker Ryan Coogler, a concorrere per il premio più importante); un trio di ottimi titoli che, a sorpresa, prevalgono su altri due contendenti molto quotati ed entrambi basati su ottime opere teatrali di successo, ovvero Ma Rainey’s Black Bottom e Quella Notte a Miami…, inaspettatamente esclusi dalla corsa al premio principale, come anche il solido e contemplativo western Notizie dal Mondo di Paul Greengrass (relegato a una gara più ristretta soltanto nelle categorie tecniche). Fuori dalla competizione in questa categoria anche l’acclamato prodotto indipendente First Cow di Kelly Reichardt, l’ottimo cartoon Pixar di successo Soul e il satirico Borat – Seguito di Film Cinema (ben accolto sequel del celebre film del 2006), premiato ai Golden Globe come miglior film musical o commedia.

Per la prima volta nella storia dell’Academy, quest’anno la cinquina dei candidati alla miglior regia include non soltanto due autori di origine asiatica, ma anche due presenze femminili: infatti, accanto a Lee Isaac Chung (nato in USA da genitori sudcoreani e candidato anche per lo script del suo Minari), in gara troviamo inoltre non solo l’inglese Emerald Fennell (già attrice e autrice TV, che per il suo esordio Una Donna Promettente riceve altre 2 nomination per miglior film e sceneggiatura), ma anche l’immancabile Chloé Zhao (filmmaker cinese già affermata sulla scena indie USA), candidata per Nomadland anche in veste di co-produttrice, sceneggiatrice e montatrice (risultato che la rende la prima donna a eguagliare il record di Warren Beatty, Alan Menken, Alfonso Cuarón e dei fratelli Coen per maggior numero di nomination con un singolo film). Forte anche di tale risonanza, in caso di vittoria quest’ultima diventerebbe inoltre (proprio nell’edizione che fa appunto salire a 7 il numero di presenze femminili in questa categoria) la seconda donna ad aggiudicarsi la statuetta per la miglior regia (la prima e finora unica a riuscirci fu Kathryn Bigelow nel 2009 con The Hurt Locker), concludendo così in bellezza un nettissimo percorso trionfale che l’ha portata a dominare il circuito dei premi di quest’anno, imponendosi di conseguenza come grande favorita alla vittoria (condizione confermata anche dalla conquista del Critics’ Choice Award, del premio BAFTA, del Directors Guild Award e del Golden Globe). Ma a chiudere la cinquina troviamo inoltre il grande David Fincher (che con Mank torna in gara a dieci anni dalla sfiorata vittoria per The Social Network) e, a sorpresa, il noto autore di fama internazionale Thomas Vinterberg, che con il notevole Un Altro Giro (candidato anche come film internazionale) diventa il primo danese a concorrere per questo premio, trovando spazio in una categoria che negli ultimi tempi ha in effetti acquisito un carattere assai più internazionale (dai premi al francese Hazanavicius e ai messicani Iñárritu, Del Toro e Cuarón, alla nomination al polacco Pawlikowski fino all’ultimo, epocale trionfo del sudcoreano Bong Joon-ho); così, quest’ultimo soffia l’ultimo posto in cinquina a due vecchie conoscenza dell’Academy, ovvero Regina King (già premiata come attrice e ora molto apprezzata anche per il suo buon debutto da regista Quella Notte a Miami…) e il drammaturgo Aaron Sorkin, che per il solido Il Processo ai Chicago 7 (suo secondo film dietro la macchina da presa) potrebbe comunque puntare al secondo Oscar come sceneggiatore, a un decennio dalla sua prima vittoria (conquistata proprio con il succitato film di Fincher sulla nascita di Facebook). Tra gli esclusi in questa categoria, oltre a due promettenti esordienti nel lungometraggio di fiction come il documentarista Darius Marder e il drammaturgo francese Florian Zeller (entrambi tuttavia in gara come sceneggiatori per i rispettivi Sound of Metal e The Father), da citare sono inoltre non solo il già candidato Paul Greengrass di Notizie dal Mondo, ma anche il regista di Ma Rainey’s Black Bottom George C. Wolfe (già molto attivo in teatro e premiato con 2 Tony Awards) e il grande Spike Lee (il cui pur notevole Da 5 Bloods non riscuote con l’Academy lo stesso successo del precedente BlacKkKlansman).

Pronostici perlopiù rispettati per quanto riguarda le candidate al premio come miglior attrice protagonista, tra le quali però la partita resta comunque apertissima e dall’esito tuttora incredibilmente incerto a seguito di un inconsueto svolgimento che, in continua ed imprevedibile evoluzione, ha portato i precedenti riconoscimenti che scandiscono la stagione dei premi a distribuirsi più o meno equamente tra le cinque contendenti, nessuna delle quali in grado quindi ad imporsi sulle altre tanto da spiccare (secondo statistiche e pronostici) come probabile favorita. Infatti, se l’inglese Carey Mulligan può contare su una solida schiera di sostenitori che l’ha portata a conquistare il Critics’ Choice Award e l’Independent Spirit Award per la sua inedita ed iconica performance (tra le migliori della sua carriera) nell’acclamato Una Donna Promettente, in gara troviamo anche la connazionale Vanessa Kirby, che per la sua coinvolgente interpretazione nel drammatico Pieces of a Woman si è invece aggiudicata la prestigiosa Coppa Volpi al festival di Venezia. Ma tra le candidate al premio figurano inoltre due grandi attrici tra le più stimate e premiate degli ultimi tempi, ovvero Viola Davis (molto apprezzata in Ma Rainey’s Black Bottom) e Frances McDormand (figura tra le principali di questa edizione grazie al successo di Nomadland, di cui è assoluta protagonista): se la prima, grazie al ruolo del titolo nel film di George C. Wolfe, prevale ai SAG Awards e ottiene la sua quarta nomination all’Oscar, risultato che la rende l’attrice nera più candidata nella storia dell’Academy, la seconda, cuore pulsante di uno dei titoli favoriti per la vittoria, trionfa invece ai BAFTA e rinforza altresì tale buon posizionamento ricevendo per il film di Chloé Zhao una seconda nomination in veste di co-produttrice, divenendo così invece la prima donna candidata per la recitazione a concorrere con lo stesso film anche al premio più importante; una coppia di contendenti autorevoli e validissime, le quali, entrambe già appunto forti di un personale primato, in caso di vittoria consoliderebbero ulteriormente la loro presenza nell’albo d’oro degli Oscar: infatti, se un nuovo trionfo come attrice di Frances McDormand (già due volte premiata, nel 1996 e nel 2017) segnerebbe la sua entrata di diritto nell’Olimpo dei vincitori, rendendola la quarta interprete femminile (dopo Katharine Hepburn, Ingrid Bergman e Meryl Streep) ad aggiudicarsi più di due Oscar, l’assegnazione della statuetta a Viola Davis porterebbe invece l’amatissima attrice (già premiata nel 2016 come non protagonista) a diventare la prima donna afroamericana a ricevere un secondo riconoscimento per la recitazione. In tutto ciò, da non sottovalutare nella corsa al premio è però anche Andra Day, già nota cantautrice che, al suo primo ruolo da protagonista sul grande schermo, nobilita il non esaltante biopic The United States vs. Billie Holiday incarnando con sentita partecipazione la grande e tormentata cantante jazz-blues del titolo, interpretazione per la quale è riuscita appunto a farsi notare, tanto da aggiudicarsi il Golden Globe, prevalendo a sorpresa proprio sulle quattro succitate contendenti. Competizione quindi assai serrata e appunto imprevedibile che potrebbe quindi, a seconda del risultato, veder prevalere un’outsider, includere una nuova presenza nel ristretto gruppo dei triplici vincitori, oppure condurre finalmente di nuovo alla vittoria come protagonista un’attrice afroamericana (l’unica a riuscirci resta infatti Halle Berry nel 2001) proprio nell’anno in cui, per la seconda volta nella storia dell’Academy, la cinquina include due attrici nere (situazione verificatasi in precedenza soltanto nel lontano 1973 con le nomination a Cicely Tyson e Diana Ross, quest’ultima curiosamente a sua volta nei panni di Billie Holiday). Tra le attrici invece escluse dalla competizione, oltre alla ritrovata Sophia Loren de La Vita Davanti a Sé e l’iconica Rosamund Pike di I Care a Lot (recentemente premiata ai Golden Globe come miglior interprete brillante), spiccano inoltre l’inedita Zendaya di Malcolm & Marie, la Amy Adams di Elegia Americana, la sempre brava Kate Winslet di Ammonite e la coinvolgente Yeri Han di Minari, ma anche la giovane scoperta Sidney Flanigan, molto apprezzata nell’applaudito prodotto indie Mai Raramente a Volte Sempre.

Nella corsa al premio come miglior attore protagonista il favorito resta senza dubbio il compianto Chadwick Boseman, stimato interprete di recente prematuramente scomparso che, mai candidato in vita, riceve solo ora e con incontestabile merito una nomination per la sua intensa e notevole performance (già premiata con il SAG e il Golden Globe) di tormentato musicista nel teatrale Ma Rainey’s Black Bottom di George C. Wolfe; nono attore a essere candidato dopo la morte, in caso di vittoria l’eclettico Boseman (molto amato anche dal grande pubblico, specialmente dopo aver vestito i panni del protagonista nel cinecomic Black Panther) diventerebbe il terzo interprete ad aggiudicarsi un Oscar postumo dopo Peter Finch (che nel 1976 ottenne la statuetta per il celebre Quinto Potere di Sidney Lumet) e Heath Ledger (premiato invece nel 2008 come non protagonista per Il Cavaliere Oscuro). Da non sottovalutare sono però anche due grandi veterani inglesi già premiati in precedenza, ovvero Gary Oldman (impegnato ad incarnare con l’usuale maestria lo sceneggiatore Herman J. Mankiewicz nell’ambizioso Mank di David Fincher) e soprattutto Anthony Hopkins, che per il suo ruolo di confuso padre anziano in The Father (con cui ha inaspettatamente trionfato ai BAFTA, dimostrandosi così un validissimo e assai quotato contendente alla vittoria) ottiene la sua sesta nomination, diventando così, all’età di 83 anni, l’attore più anziano ad essere candidato come protagonista (record detenuto in precedenza dal Richard Farnsworth di Una Storia Vera). Ma a chiudere la cinquina troviamo inoltre altri due interpreti non bianchi (per la prima volta in maggioranza in questa categoria, come anche in quella dedicata agli attori di supporto) a loro volta molto apprezzati, ovvero Riz Ahmed (premiato con l’Independent Spirit Award per il suo ruolo di batterista sordo in Sound of Metal) e Steven Yeun (determinato e commovente marito e padre in Minari), entrambi forti anche di un nuovo primato: infatti, i due interpreti diventano rispettivamente il primo musulmano (nato in Inghilterra da genitori pakistani) e il primo americano di origine orientale (nato in Corea del Sud ma cresciuto negli Stati Uniti) a ricevere la candidatura come protagonisti. Niente candidatura invece per Tahar Rahim (candidato al Golden Globe per The Mauritanian), Tom Hanks (al suo primo ruolo da western in Notizie dal Mondo), Mads Mikkelsen (ottimo protagonista del danese Un Altro Giro, candidato come miglior film internazionale) e Delroy Lindo (molto apprezzato in Da 5 Bloods di Spike Lee).

Sebbene non caotica e imprevedibile quanto quella dedicata alle interpreti principali, anche la gara tra le candidate al premio come migliore attrice non protagonista resta comunque piuttosto aperta, tra le più affollate di quest’anno e tuttora senza una netta, autentica favorita. In tutto ciò, a saltare agli occhi in questa categoria è innanzitutto la riproposizione della sfida tra Glenn Close e Olivia Colman, che nel 2018 si contesero la statuetta come protagoniste in un testa a testa che alla fine vide prevalere la seconda (premiata per La Favorita): infatti, se quest’ultima tenta ora il bis con il ruolo di figlia dell’anziano protagonista nel dramma The Father, la prima torna invece in gara con la trasformazione in nonna bizzarra ed energica nel tuttavia tiepidamente accolto Elegia Americana di Ron Howard, performance con la quale punta di nuovo ad aggiudicarsi finalmente il suo primo, agognato Oscar; in caso di nuova sconfitta, l’amatissima attrice, arrivata ormai infatti all’ottava nomination eppure, appunto, incredibilmente mai premiata, eguaglierebbe il record di Peter O’Toole per interprete con maggior numero di candidature senza alcuna vittoria. Ma oltre alla già nota Amanda Seyfried (davvero magnetica nei panni di Marion Davies in Mank, interpretazione tra le migliori della sua carriera), ad entrare in cinquina sono anche due new entry straniere a loro volta molto quotate, ovvero la giovane scoperta bulgara Maria Bakalova (che ha convinto pubblico e critica interpretando la figlia del protagonista in Borat – Seguito di Film Cinema) e la più matura e navigata sudcoreana Youn Yuh-jung (molto lodata per la sua notevole interpretazione di atipica nonna nel coinvolgente Minari): se la prima, salutata negli USA come autentica rivelazione, passa da semi-sconosciuta a quotata neo-candidata, riuscendo nella difficile impresa di imporsi con decisione nel circuito dei premi con una irriverente quanto coraggiosa performance comica (che l’ha portata ad aggiudicarsi il Critics’ Choice Award), la seconda, già invece molto nota in patria, conquista ora con merito anche l’industria hollywoodiana, diventando così (grazie ad un ruolo recitato interamente nella sua lingua madre) la prima attrice coreana a ricevere la nomination (che potrebbe altresì tradursi in statuetta, specialmente dopo i trionfi ai SAG e ai BAFTA). Tra le interpreti invece escluse dalla competizione, oltre alla giovanissima tedesca Helena Zengel di Notizie dal Mondo (al suo primo ruolo importante in una produzione anglofona), spiccano inoltre l’efficace Dominique Fishback di Judas and the Black Messiah e soprattutto un’altra grande veterana come Ellen Burstyn (molto lodata per la breve ma intensa performance in Pieces of a Woman), ma anche la Jodie Foster di The Mauritanian (la quale, premiata a sorpresa con il Golden Globe e perciò da molti considerata un’inaspettata outsider anche nella corsa agli Oscar, non riscuote invece con l’Academy lo stesso successo).

Come nella categoria dedicata ai protagonisti, anche in quella dei migliori attori di supporto figura per la prima volta una maggioranza di interpreti non bianchi, nello specifico tre afroamericani, due dei quali dal ben accolto Judas and the Black Messiah di Shaka King: infatti, se Daniel Kaluuya ottiene come previsto la sua seconda nomination per la notevole performance nei panni dell’attivista Fred Hampton (puntando alla vittoria dopo aver già ottenuto diversi riconoscimenti, tra cui il SAG Award, il BAFTA e il Golden Globe), in cinquina entra anche il suo ottimo co-protagonista Lakeith Stanfield, che contro ogni pronostico riceve una candidatura a sorpresa per l’efficace interpretazione nel ruolo dell’informatore dell’FBI William O’Neal. Ma accanto a loro troviamo inoltre Leslie Odom, Jr. (già noto e premiato con il Tony Award per aver interpretato a teatro il ruolo di Aaron Burr nel musical di culto Hamilton), che per la sua partecipazione al film Quella Notte a Miami… (esordio dietro la macchina da presa dell’attrice Regina King) ottiene una doppia candidatura, concorrendo infatti non solo in questa categoria (grazie alla sua performance nei panni di Sam Cooke), ma anche in quella della miglior canzone come co-autore del brano “Speak Now”. Forte di una doppia nomination, pur nel suo caso per titoli differenti, è anche Sacha Baron Cohen, unico membro del nutrito cast de Il Processo ai Chicago 7 ad ottenere la candidatura, il quale, oltre a concorrere appunto come attore in questa categoria per il film di Sorkin (in cui a sua volta veste i panni di un attivista realmente esistito, ovvero Abbie Hoffman), riceve infatti anche una seconda nomination come co-sceneggiatore per Borat – Seguito di un Film Cinema. Ma a chiudere la cinquina è infine un altro interprete già molto lodato e premiato, ovvero Paul Raci, caratterista finora poco conosciuto, il quale (figlio di genitori sordi) a 72 anni ottiene il suo primo ruolo di rilievo (recitato in gran parte in linguaggio dei segni), conquistando pubblico e critica nei panni dell’alcolista in recupero che ha perso l’udito durante la guerra del Vietnam nel drammatico Sound of Metal. Tra gli attori invece esclusi dalla gara in questa categoria, oltre agli altri componenti del cast de Il Processo ai Chicago 7 (tra i quali spiccano soprattutto Mark Rylance e Yahya Abdul-Mateen II), da citare sono inoltre Bill Murray (nuovamente diretto da Sofia Coppola in On the Rocks), Jared Leto (candidato a sorpresa al SAG e al Golden Globe per il pur tiepidamente accolto Fino all’Ultimo Indizio), il piccolo Alan Kim (davvero efficace in Minari) e di nuovo Chadwick Boseman (il quale, in gara come protagonista per Ma Rainey’s Black Bottom, nell’anno della sua scomparsa si è fatto notare anche per un importante ruolo da co-protagonista in Da 5 Bloods di Spike Lee).

Per la prima volta, tutti i titoli in corsa per il premio alla migliore sceneggiatura originale si contendono anche la statuetta per miglior film. Tra questi (ognuno dei quali scritto o co-sceneggiato dal rispettivo regista), a spiccare è innanzitutto Il Processo ai Chicago 7, forte di un copione firmato da Aaron Sorkin, il quale (fresco vincitore del Golden Globe, nonché unico in cinquina già precedentemente candidato e premiato dall’Academy) dimostra nuovamente le sue note abilità di grande drammaturgo, puntando al secondo Oscar per la scrittura a dieci anni esatti dalla prima vittoria (in quel caso nella categoria “gemella” dedicata alle sceneggiature non originali) per The Social Network; ma, come da pronostico, lo stimato sceneggiatore dovrà vedersela non solo con Lee Isaac Chung, autore dell’apprezzato Minari, ma anche e soprattutto con un’altra outsider molto quotata, ovvero l’inglese Emerald Fennell, che con il brillante script del suo ottimo esordio dietro la macchina da presa Una Donna Promettente (per il quale concorre anche alle statuette per miglior film e regia) ha già conquistato con merito diversi riconoscimenti nel corso della stagione dei premi (tra cui il Writers Guild Award e il BAFTA in patria), confermandosi una validissima contendente alla vittoria in questa categoria. Chiudono la cinquina Judas and the Black Messiah (co-sceneggiato dal regista Shaka King) e Sound of Metal (che fa ottenere la prima candidatura al già noto filmmaker Derek Cianfrance, co-autore del soggetto sviluppato dall’amico regista Darius Marder insieme al fratello e collaboratore Abraham), i quali a a sorpresa prevalgono sul quotato e pluricandidato Mank di David Fincher (scritto dal padre del regista, scomparso nel 2006), che quindi inaspettatamente manca questa importante nomination. Fuori gara, tra gli altri, anche l’ottimo cartoon Pixar Soul, la ben accolta commedia Palm Springs e l’acclamato prodotto indie Mai Raramente a Volte Sempre (scritto e diretto da Eliza Hittman).

Nella corsa all’Oscar per il miglior script non originale (ovvero basato su un materiale già pubblicato, oppure adattato da diverse fonti) troviamo di nuovo in pole position la pluricandidata Chloé Zhao, la quale (già grande favorita al premio come miglior regista) potrebbe infatti trionfare anche come sceneggiatrice (sulla scia della vittoria ai Writers Guild Awards) grazie al suo Nomadland (per il quale la filmmaker cinese ha sapientemente tratto materia dall’omonimo libro-inchiesta della giornalista Jessica Bruder). Ma a contendersi la statuetta troviamo anche due abili drammaturghi impegnati a trasporre in versione cinematografica i rispettivi testi per il palcoscenico: infatti, se per Quella Notte a Miami… (esordio alla regia di Regina King) l’americano Kemp Powers (quest’anno distintosi anche come co-regista del cartoon Pixar Soul) ha adattato per lo schermo la sua omonima pièce del 2013, per il suo esordio dietro la macchina da presa (girato in UK e in lingua inglese) il francese Florian Zeller ha invece rielaborato per il cinema (trasferendone appunto l’azione oltremanica, in collaborazione con il noto e già premiato sceneggiatore britannico Christopher Hampton) il suo lavoro teatrale The Father, vincendo il BAFTA per lo script e confermandosi quindi un valido contendente in questa categoria. Ad occupare gli ultimi due posti in cinquina sono infine la commedia satirica Borat – Seguito di Film Cinema (sequel del celebre film del 2006) e l’apprezzato outsider La Tigre Bianca (tratto dall’omonimo bestseller dello scrittore indiano Aravind Adiga, vincitore del Booker Prize): se il primo replica il successo del prototipo, a sua volta candidato per lo script (in quel caso originale), riportando così in gara il rodato ed ora ampliato team di autori (tra i cui quali figura nuovamente il protagonista Sacha Baron Cohen, quest’anno candidato anche come attore per Il Processo ai Chicago 7), il secondo fa invece ottenere la prima nomination al regista americano di origine iraniana Ramin Bahrani (anche autore della sceneggiatura). Così, inaspettatamente quest’ultimo soffia a sorpresa la candidatura ad altri due titoli assai quotati, ovvero l’acclamato e molto premiato First Cow di Kelly Reichardt (tratto da un romanzo di Jonathan Raymond) e Ma Rainey’s Black Bottom (adattamento per lo schermo dell’omonima opera teatrale del grande August Wilson), quest’ultimo inaspettatamente escluso anche da questa categoria. Fuori dalla competizione anche il solido The Mauritanian (ispirato alle memorie di Mohamedou Ould Slahi), lo straniante e surreale Sto Pensando di Finirla Qui (terzo film da regista del già premiato sceneggiatore Charlie Kaufman, che trasferisce su schermo il romanzo omonimo di Iain Reid) e il western di Paul Greengrass Notizie dal Mondo (tratto dal romanzo di Paulette Jiles, adattato per lo schermo dal regista in collaborazione con Luke Davies).

Tra i titoli non anglofoni a contendersi la statuetta nella categoria precedentemente nota come “miglior film straniero” e rinominata dallo scorso anno “miglior film internazionale”, il favorito resta senza dubbio il danese Un Altro Giro di Thomas Vinterberg (già trionfatore agli European Film Awards e ai BAFTA), che ottiene inoltre una seconda, importante candidatura per la miglior regia. Forte di una doppia nomination è però anche il ben accolto Collective, primo film rumeno in corsa per il premio, nonché secondo in assoluto (dopo il macedone Honeyland lo scorso anno) a concorrere appunto come miglior film internazionale e anche come miglior documentario. Ma per la prima volta in gara troviamo anche la Tunisia, che entra in cinquina grazie alla riuscita co-produzione internazionale The Man Who Sold His Skin (presentato al festival di Venezia nella sezione Orizzonti); infine, se il notevole Quo Vadis, Aida? (intenso e coraggioso film bosniaco sul massacro di Srebrenica) conquista con merito anche l’Academy, a chiudere la cinquina troviamo inoltre, a sorpresa, Better Days, candidato di Hong Kong diretto da Derek Tsang e divenuto un grandissimo successo in Cina; quest’ultimo soffia così inaspettatamente la candidatura a contendenti più quotati, tra i quali, oltre al messicano Non Sono Più Qui e al guatemalteco La Llorona (primo horror a rientrare nella shortlist di finalisti in questa categoria), spiccano inoltre l’ivoriano Night of the Kings, il francese Due (diretto dall’italiano Filippo Meneghetti) e il russo Cari Compagni! di Andrej Končalovskij (vincitore del Premio Speciale della Giuria al festival di Venezia). Fuori dalla competizione anche gli altri quattro titoli inclusi in shortlist, ovvero il taiwanese The Sun, il norvegese Hope, l’iraniano Sun Children e il cileno The Mole Agent, che tuttavia riesce a ottenere la nomination come miglior documentario; meno fortunato, a tal proposito, Notturno di Gianfranco Rosi, titolo scelto per rappresentare l’Italia in questa edizione, che invece resta infatti completamente escluso dalla corsa ai premi, mancando la candidatura non solo in questa categoria (non qualificandosi nemmeno tra i finalisti), ma anche (a differenza di Fuocoammare, precedente lavoro del regista) in quella dedicata appunto alle opere di non-fiction (pur figurando in questo caso nella relativa rosa di finalisti).

Anche quest’anno, in pole position nella corsa al premio per miglior film animato troviamo l’immancabile Pixar, per la prima volta in gara con ben due titoli, ovvero il grazioso Onward e soprattutto l’emozionante Soul, grande successo elogiato anche dalla critica: decisamente più rilevante e già molto quotato, quest’ultimo (in cui l’anima di uno sventurato insegnante di musica tenta di ricongiungersi al suo corpo per coronare il sogno di una vita) conquista non a caso altre due candidature tecniche (ovvero miglior colonna sonora e miglior sonoro), consolidando quindi ulteriormente il suo status di grande favorito alla vittoria (confermato anche dai trionfi agli Annie Awards, ai BAFTA e ai Golden Globe) e facendo inoltre ottenere al regista Pete Docter la sua quarta nomination in questa categoria (un record). Da non sottovalutare è però anche l’acclamato outsider europeo Wolfwalkers, ottimo prodotto indipendente in animazione tradizionale che chiude molto degnamente una preziosa trilogia (aperta da The Secret of Kells e proseguita con La Canzone del Mare) realizzata da Tomm Moore ed ispirata alla mitologia irlandese. Chiudono la cinquina il buon prodotto Netflix Over the Moon e il ben accolto sequel Shaun, Vita da Pecora: Farmageddon – Il Film, secondo adattamento per il cinema dell’omonima serie britannica in stop-motion targata Aardman Animations e nata come spin-off dei celebri cortometraggi con protagonisti Wallace e Gromit (ideati da Nick Park e in passato già premiati anche dall’Academy). Meno fortunata invece la DreamWorks, esclusa invece dalla competizione nonostante il successo dei due attesi sequel Trolls World Tour e I Croods – Una Nuova Era, che restano infatti fuori dalla cinquina dei candidati; stessa sorte anche per la co-produzione canadese La Famiglia Willoughby e altri quattro non trascurabili titoli asiatici, ovvero l’indiano Bombay Rose, il cinese No. 7 Cherry Lane (entrambi presentati al festival di Venezia) e i giapponesi Earwig and the Witch e Ride Your Wave.

Probabile sfida a due nella corsa all’Oscar per la migliore fotografia: infatti, se il pluricandidato Mank si fa notare con il suo evocativo bianconero (in digitale ma rielaborato per simulare l’effetto delle vecchie pellicole) ad opera del promettente Erik Messerschmidt (alla prima esperienza nel lungometraggio ma già collaboratore di Fincher nella serie Mindhunter), davvero notevole a livello visivo è anche Nomadland, con i suggestivi paesaggi dell’America profonda splendidamente fotografati dall’inglese Joshua James Richards (storico collaboratore e compagno della regista Chloé Zhao), il quale punta alla vittoria dopo aver già ottenuto diversi riconoscimenti nel corso della stagione dei premi. Ma a contendersi la statuetta troviamo inoltre due più conosciuti ed esperti autori della fotografia entrambi di origine straniera, ovvero il greco Phedon Papamichael e il polacco Dariusz Wolski: se il primo (unico in cinquina già candidato in precedenza) torna in gara per il suo contributo alla vivida resa su schermo delle aule del tribunale in cui si svolge il courtroom drama Il Processo ai Chicago 7, il secondo (finora invece incredibilmente mai considerato dall’Academy) conquista finalmente la sua prima nomination per aver esaltato con sapienza le ambientazioni western di Notizie del Mondo. Chiude infine la cinquina il capace Sean Bobbitt (già noto per la sua collaborazione di lunga data con il regista Steve McQueen), candidato per il pregevole lavoro sulle immagini a forti contrasti di Judas and the Black Messiah. Tra i film che invece non riescono ad ottenere la nomination, oltre a Cherry dei fratelli Russo (anch’esso illuminato da Bobbitt), spiccano inoltre non solo Da 5 Bloods di Spike Lee e The Midnight Sky di George Clooney, ma anche Tenet di Christopher Nolan (fotografato dal già noto e stimato olandese-svedese Hoyte van Hoytema) e il il russo Cari Compagni! di Andrej Končalovskij (efficace dramma storico girato in un nitido bianconero e in formato 4:3).

Dalla scena musicale della Chicago degli anni Venti ai paesaggi sconfinati del vecchio West, da disorientanti interni domestici a minacciosi scenari futuristici fino all’età d’oro hollywoodiana: in tale varietà di ambientazioni e contesti rievocati quest’anno su schermo, a guidare la competizione nella corsa al premio per le migliori scenografie è proprio un film sul cinema, ovvero il pluricandidato Mank, che con la sua minuziosa ricostruzione della Hollywood degli anni Quaranta (ad opera di Donald Graham Burt, già premiato nel 2008 per Il Curioso Caso di Benjamin Button, anch’esso diretto da Fincher) è infatti largamente considerato il favorito almeno in questa categoria; da notare sono però, appunto, anche gli ambienti discografici d’epoca del teatrale Ma Rainey’s Black Bottom e gli scenari western di Notizie dal Mondo, che completano la cinquina insieme ai dettagliati quanto cruciali arredamenti (elevati quasi a personaggio) del dramma intimista The Father e alle suggestive ambientazioni della spettacolare spy-story a loop temporali Tenet (che riporta in gara il già cinque volte candidato Nathan Crowley, abituale collaboratore del regista Christopher Nolan); inaspettatamente, questi ultimi due titoli prevalgono quindi non solo sugli sfondi vittoriani di Emma. (nuova versione per lo schermo del romanzo di Jane Austen) e sull’efficace apparato scenografico della versione in live-action di Mulan (ad opera del già premiato Grant Major), ma anche sulle atmosfere fantascientifiche di The Midnight Sky e sulla sontuosa ricostruzione d’epoca de La Vita Straordinaria di David Copperfield (curata dall’italiana Cristina Casali).

Ancora i musicisti degli anni Venti e i divi della Old Hollywood, ma anche i guerrieri della leggendaria Cina imperiale, le eroine di Jane Austen e i personaggi di Carlo Collodi: nel variegato assortimento di costumi a contendersi il premio nella relativa categoria, a spiccare sono innanzitutto lo sfavillante vestiario da scena musicale di Ma Rainey’s Black Bottom, che potrebbe far ottenere il secondo Oscar alla veterana Ann Roth, la quale, a 89 anni, diventa inoltre la terza candidata più anziana di sempre dopo la filmmaker belga Agnès Varda e il regista James Ivory, entrambi più vecchi di soli tre mesi quando ricevettero le nomination nel 2018 (rispettivamente per miglior documentario e miglior sceneggiatura non originale). Ma oltre agli sfarzosi abiti da star del cinema sfoggiati in Mank e al curato vestiario orientale del prodotto Disney Mulan (riproposizione in live-action dell’omonimo cartoon del 1998), a farsi notare è anche il lavoro di un’altra costumista già molto nota e premiata, ovvero l’inglese Alexandra Byrne, la quale a sua volta punta al secondo premio per il gustoso guardaroba d’epoca che impreziosisce il riuscito Emma. (nuovo, riuscito adattamento per lo schermo del celebre romanzo di Jane Austen). Infine, in cinquina troviamo inoltre, a sorpresa, una ben accolta produzione nostrana, ovvero Pinocchio di Matteo Garrone (personale adattamento cinematografico del classico di Collodi), candidato non solo per trucco e acconciature, ma anche per il prezioso lavoro sui costumi ad opera di Massimo Cantini Parrini, già molto noto in patria (dove, dagli inizi come allievo di Piero Tosi e poi assistente di Gabriella Pescucci, è arrivato a lavorare per diversi registi conosciuti, conquistando negli ultimi anni ben 4 David di Donatello, l’ultimo dei quali proprio per questo film); quindicesimo italiano candidato in questa categoria, lo stimato professionista fiorentino (il quale, in caso di vittoria, diventerebbe il settimo artista nostrano ad aggiudicarsi questo premio) soffia così la nomination ad altri quotati colleghi anglofoni tra cui, oltre al Mark Bridges di Notizie dal Mondo, spiccano inoltre la Nancy Steiner di Una Donna Promettente e la Erin Benach di Birds of Prey, ma anche Suzie Harman e Robert Worley (co-creatori degli sgargianti costumi de La Vita Straordinaria di David Copperfield).

Come da pronostico, anche nella categoria dedicata a trucco e acconciature troviamo in pole position Ma Rainey’s Black Bottom, forte di un curato ed efficace lavoro sul look degli interpreti che (coadiuvando l’adesione mimetica con cui Viola Davis si è calata nei panni della cantante blues del titolo) potrebbe condurre alla vittoria il team di truccatori di cui (insieme a Sergio Lopez-Riva) fanno parte Mia Neal e Jamika Wilson, prime afroamericane candidate in questa categoria. Ma in lizza per il premio figurano inoltre non solo altri due quotati e già citati film in costume, ovvero l’evocativo Mank e il delizioso Emma., ma anche il dramma in ambientazione più contemporanea Elegia Americana di Ron Howard, tiepidamente accolto dalla critica ma di cui l’Academy ha notato il vistoso make-up che contribuisce all’elaborata trasformazione fisica richiesta per i rispettivi ruoli alle interpreti principali Amy Adams e Glenn Close (specialmente quest’ultima, appunto quasi irriconoscibile in un ruolo che, come suddetto, la riporta in gara per l’ottava volta). Infine, anche in questo caso a chiudere la cinquina di candidati è il già citato Pinocchio di Garrone, che fa ottenere una nomination non solo al succitato costumista Massimo Cantini Parrini, ma anche al team di truccatori che, oltre all’inglese Mark Coulier (già 2 volte premiato), include gli italiani Dalia Colli (livornese, specialista in protesi FX) e Francesco Pegoretti (acconciatore sabino, figlio della nota hair stylist Alberta Giuliani): già premiati in patria con il David di Donatello, questi ultimi fanno quindi salire a 9 il numero di presenze nostrane in una categoria nella quale finora solo 3 italiani (ovvero Rocchetti, Bertolazzi e Gregorini) hanno trovato la vittoria. Tra gli esclusi dalla competizione spiccano invece anche in questo caso Birds of Prey e Quella Notte a Miami…, ma anche gli altri tre titoli in shortlist, ovvero il thriller Fino all’Ultimo Indizio, il musical natalizio Jingle Jangle e The Glorias (biopic su Gloria Steinem diretto da Julie Taymor).

Nella categoria che tra le tecniche è abitualmente oggetto di particolare attenzione non solo per importanza intrinseca (in quanto dedicata ad una delle componenti fondamentali del linguaggio cinematografico) ma anche in termini di competizione (poiché solita riflettere o confermare una potenzialmente maggiore incidenza dei relativi candidati anche in quelle principali), i cinque titoli a contendersi l’Oscar per il montaggio sono infatti (non a caso) tutti in lizza anche per il premio più importante. Tra questi, a spiccare è innanzitutto Il Processo ai Chicago 7, cadenzato da un solido e serrato montaggio alternato ad opera dell’abile Alan Baumgarten (unico in cinquina già candidato in precedenza), il quale però dovrà vedersela con l’ugualmente quotato danese Mikkel E.G. Nielsen (premiato con merito ai BAFTA), il cui lavoro di editing coadiuva con efficacia l’articolarsi di forti rumori e assoluti silenzi che caratterizza il ben accolto Sound of Metal. E se da non sottovalutare è di nuovo l’onnipresente Chloé Zhao, candidata (oltre che come regista, sceneggiatrice e co-produttrice) anche in veste di montatrice per il suo Nomadland, in cinquina troviamo inoltre Yorgos Lamprinos (greco di origine ma da anni trapiantato in Francia) per il suo cruciale, sottile quanto astuto contributo all’innesto tra percezione e realtà su cui si fonda il drammatico The Father. Chiude la cinquina il francese Frédéric Thoraval (lanciato a livello internazionale da Luc Besson), candidato per il funzionale montaggio del ritmato e trascinante Una Donna Promettente, la cui presenza anche in questa categoria comprova ulteriormente, come suddetto, la grande considerazione da parte dell’Academy per un titolo che (tra i più apprezzati della stagione) si conferma quindi, appunto, molto ben posizionato nella corsa ai premi. Quest’ultimo soffia così la candidatura non solo al teso viaggio nel vecchio West di Notizie dal Mondo e alle scansioni temporali di Tenet, ma anche al quotato Minari e soprattutto al pluricandidato Mank, che inaspettatamente manca infatti questa importante nomination.

Come da pronostico, nella corsa al premio per la migliore colonna sonora spicca innanzitutto la doppia nomination a Trent Reznor e Atticus Ross, collaboratori di lunga data non solo come membri dei Nine Inch Nails, ma anche in veste di co-compositori per il cinema, attività parallela sancita definitamente da The Social Network di David Fincher, film che nel 2010 li portò ad aggiudicarsi l’Oscar e ad instaurare con il regista un fruttuoso e ormai consolidato sodalizio portato avanti per tutti i suoi film successivi, tra cui anche Mank. Ma oltre alla nomination per quest’ultimo titolo, come previsto il celebre duo di musicisti ne ottiene appunto anche una seconda grazie al loro primo contributo ad un’opera d’animazione, ovvero il cartoon Pixar Soul, per il quale Reznor e Ross concorrono al premio insieme al neo-candidato Jon Batiste (al suo primo lavoro per il cinema), autore dei temi jazz che nel film si alternano alle loro composizioni elettroniche: un’efficace combinazione di armonie con la quale l’inedito trio, già premiato ai BAFTA e ai Golden Globe, si pone ora, non a caso, in pole position per aggiudicarsi anche l’Oscar. Ma da non sottovalutare è anche un altro autore di colonne sonore molto noto e apprezzato, ovvero James Newton Howard, il quale, già 8 volte candidato ma incredibilmente mai premiato, punta a conquistare la sua prima, agognata statuetta per aver composto le potenti musiche del western Notizie dal Mondo. Infine, oltre al giovane talento Emile Mosseri (già leader del gruppo indie rock The Dig), autore delle coinvolgenti melodie di Minari, in cinquina troviamo anche Terence Blanchard, in gara con l’intensa colonna musicale del personale e troppo poco considerato Da 5 Bloods (a cui l’Academy ha infatti riservato quest’unica menzione tecnica), film con cui l’esperto jazzista e compositore porta avanti la sua lunga collaborazione con Spike Lee, diventando inoltre il primo afroamericano a ricevere una seconda candidatura in questa categoria (dopo la prima nel 2018 per BlacKkKlansman, precedente lavoro del succitato regista di culto). In tutto ciò, quest’ultimo prevale quindi a sorpresa non solo sul già premiato norvegese Ludwig Göransson (autore del tema di Tenet) e sull’inglese Daniel Pemberton (musicista de Il Processo ai Chicago 7, film per il quale ottiene tuttavia una candidatura per la migliore canzone), ma anche su uno dei compositori per il cinema attualmente più quotati e apprezzati dall’Academy, ovvero il francese Alexandre Desplat (già pluricandidato e 2 volte vincitore, distintosi quest’anno per le incalzanti musiche del fantascientifico The Midnight Sky di George Clooney).

Come nelle categorie dedicate a costumi e trucco, quest’anno anche nella corsa al premio per la miglior canzone originale spicca un’altra (nonché ancor più nota) presenza italiana, ovvero Laura Pausini, la quale, già premiata ai Golden Globe, punta ora ad aggiudicarsi anche l’Oscar grazie all’intensa “Io Sì (Seen)”, tema portante del film di produzione nostrana La Vita Davanti a Sé (con protagonista Sophia Loren, per l’occasione nuovamente diretta dal figlio Edoardo Ponti). Sesta italiana candidata in questa categoria, in caso di vittoria la celebre cantante romagnola diventerebbe la seconda artista nostrana a conquistare l’Oscar per la miglior canzone (il primo e finora unico a riuscirci resta Giorgio Moroder, premiato ben due volte negli anni Ottanta) con un brano (il primo con testo italiano a ricevere la nomination) di cui è non solo interprete, ma anche co-autrice in collaborazione con la grande Diane Warren (la quale, per la dodicesima volta in gara eppure incredibilmente mai premiata, potrebbe quindi in tutto ciò conquistare finalmente la sua prima, agognata statuetta). Ma in lizza per il premio troviamo anche un altro contendente molto quotato, ovvero il già citato Leslie Odom, Jr., forte (come suddetto) di una doppia candidatura per il suo duplice contributo al ben accolto Quella Notte a Miami… di Regina King: infatti, oltre a concorrere al premio come miglior interprete di supporto, per lo stesso film l’attore e cantante (già vincitore di un Tony Award) riceve inoltre una seconda nomination per la miglior canzone in veste di co-autore del profondo brano portante “Speak Now” (da lui stesso anche interpretato); così, per il quarto anno consecutivo questa cinquina include un candidato in gara anche per un premio alla recitazione, situazione verificatasi infatti curiosamente anche nelle tre precedenti edizioni con le doppie menzioni a Mary J. Blige, Lady Gaga (che nel 2018 conquistò la vittoria per la ormai celebre “Shallow”) e Cynthia Erivo. Ma a trovare spazio in questa categoria sono inoltre due titoli in corsa anche per il premio come miglior film, ovvero Il Processo ai Chicago 7 e Judas and the Black Messiah: se per il primo l’Academy riserva una menzione al compositore britannico Daniel Pemberton, che si consola dalla mancata nomination per la miglior colonna sonora trovando comunque spazio in questa categoria grazie al motivo “Hear My Voice” (cantato da Celeste), con il secondo entra invece in gara anche la giovane H.E.R. (già vincitrice di 4 Grammy e molto nota nel panorama R&B contemporaneo), interprete e co-autrice del motivo “Fight for You”. Infine, in corsa per il premio troviamo “Husavik”, motivo simbolo della commedia musicale Eurovision Song Contest, ispirato all’omonima cittadina islandese e cantato dal protagonista Will Ferrell insieme a Molly Sandén: da non sottovalutare in quanto unico in cinquina ad essere eseguito a scena aperta nel film e non sui titoli di coda, quest’ultimo brano (che può inoltre contare su numerosi sostenitori) soffia quindi la candidatura ad altre canzoni assai quotate, tra le quali, oltre alla delicata “Rain Song” di Minari, spiccano inoltre la movimentata “Turntables” di Janelle Monáe (inclusa nel documentario All In: The Fight for Democracy) e la surreale “Wuhan Flu” di Borat – Seguito di Film Cinema (tra i cui autori figura il protagonista e co-sceneggiatore Sacha Baron Cohen).

Tra i candidati al premio per i migliori effetti visivi, a guidare la competizione è il già citato Tenet, ambizioso e cerebrale fanta-action di spionaggio tra spazio e tempo diretto da Christopher Nolan, meno apprezzato rispetto alle precedenti opere del regista ma comunque in pole position per aggiudicarsi almeno questo riconoscimento tecnico. Ma a contendersi la statuetta, oltre al malinconico survival movie fantascientifico The Midnight Sky (diretto, co-prodotto e interpretato da George Clooney), tiepidamente accolto dalla critica e relegato ad una competizione ristretta a quest’unica categoria (dove però potrebbe riuscire a prevalere, come accaduto ai Visual Effects Society Awards), troviamo anche due godibili film per famiglie targati Disney, ovvero la succitata versione in live-action del celebre cartoon Mulan (avventura per ragazzi che guarda al cinema wuxia, diretta dalla neozelandese Niki Caro) e la favola ambientalista L’Unico e Insuperabile Ivan (forte del lavoro sugli animali parlanti in CGI). A chiudere la cinquina è infine, a sorpresa, Love and Monsters, curioso mix tra giovanile commedia romantica e fanta-action post-apocalittico, che inaspettatamente soffia la candidatura non solo al piacevole e movimentato Birds of Prey, ma anche al pluricandidato Mank (la cui avvolgente ricostruzione d’epoca ha richiesto l’ausilio di sottili quanto sofisticati interventi digitali, curati dal rinomato studio di effetti speciali Industrial Light & Magic). Esclusi dalla competizione anche il già citato Soul (tra i pochi film d’animazione a conquistarsi un posto tra i finalisti in questa categoria) e soprattutto l’apprezzato documentario Welcome to Chechnya (prima opera di non-fiction a rientrare nella shortlist di titoli selezionati per il premio agli effetti visivi).

Per quanto riguarda il sonoro, a partire da questa edizione l’Academy introduce un sostanziale cambiamento: infatti, quest’anno i tecnici del suono concorreranno in un’unica categoria che combina le due pre-esistenti cinquine, divise per specializzazione in quanto finalizzate all’assegnazione di due premi distinti per mixaggio sonoro e montaggio sonoro; quest’ultimo, introdotto nel 1963 come Oscar agli effetti sonori, nel 1967 fu soppresso e in seguito riproposto solo saltuariamente come riconoscimento speciale, per poi essere reintrodotto definitivamente nel 1982 (tranne in due occasioni, nelle quali si tornò ad assegnarlo come trofeo non competitivo); rimasta da allora costante (sebbene con diverse variazioni, non solo nella denominazione, ma anche nel numero di candidati), a partire da quest’anno tale categoria si accorpa invece, appunto, alla “gemella” storica dedicata al mixaggio del suono (esistente, sebbene a sua volta con differenti definizioni, fin dalla terza edizione degli Academy Awards), dando così origine ad un’unica cinquina (che comprende quindi entrambe le connesse attività), ribattezzata più generalmente “miglior sonoro”. In tutto ciò, tra i candidati a contendersi il riconoscimento in tale rinnovata competizione spicca innanzitutto Sound of Metal, largamente considerato il favorito per la vittoria in quanto cadenzato proprio da un magistralmente calibrato alternarsi di rumori, musica e silenzi. Da non sottovalutare sono però anche i già citati Soul e Mank, titoli molto diversi tra loro che tuttavia condividono curiosamente non solo (come suddetto) due musicisti, ma anche altrettanti tecnici del suono, ovvero il pluricandidato Ren Klyce e il già due volte premiato David Parker, i quali (esattamente, appunto, come i compositori Reznor e Ross) ricevono quindi una doppia candidatura per entrambi i film. Infine, a chiudere la cinquina sono altri due film accomunati invece dalla presenza di Tom Hanks nel ruolo del protagonista, ovvero il western Notizie dal Mondo (anch’esso piuttosto ben posizionato in questa categoria) e l’outsider Greyhound, solido (anche se meno rilevante) war-movie distribuito dalla piattaforma streaming Apple TV+. A sorpresa, quest’ultimo titolo prevale sul più quotato Tenet, che infatti inaspettatamente manca la nomination in questa categoria (forse sulla scia del diffuso dibattito sulla funzionalità del relativo comparto sonoro, certamente elaborato ma così imponente ed insistente da risultare, a detta di molti, a tratti quasi aggressivo, tanto da soffocare e rendere quindi poco udibili alcuni passaggi di dialogo). Fuori dalla cinquina restano inoltre, tra gli altri, non solo i pluricandidati Nomadland e Il Processo ai Chicago 7, ma anche il fantascientifico The Midnight Sky, il teatrale Ma Rainey’s Black Bottom e il riuscito horror L’Uomo Invisibile (nuova versione per lo schermo del noto romanzo di H.G. Wells, nonché reboot del relativo e molto celebre adattamento cinematografico del 1933).

A contendersi il premio nella cinquina dedicata ai lungometraggi documentari troviamo tre candidati approdati su piattaforme streaming e due opere non anglofone. Tra questi, a spiccare è innanzitutto l’intimo, impegnato e sorprendente Time, debutto nel lungometraggio di non-fiction (dopo una serie di buoni corti) della filmmaker Garrett Bradley: già premiato con merito al Sundance Film Festival e distribuito da Amazon Prime Video, l’acclamato docufilm rievoca la vicenda di Sibil Fox Richardson, attivista che lotta per il rilascio del marito Rob, condannato a 60 anni di prigione per un aver rapinato una banca spinto da un momento di sconforto; inizialmente concepito come cortometraggio, il progetto ha assunto un tono e una durata differenti dal momento in cui la stessa Richardson ha fornito alla produzione una grande quantità di filmati amatoriali da lei girati nel corso degli anni, materiale che la regista ha quindi abilmente combinato a riprese originali, armonizzando poi il tutto in un funzionale bianconero. Da notare sono però anche due ottimi prodotti Netflix, ovvero Crip Camp (vincitore dell’IDA Documentary Award, in cui si segue un gruppo di giovani durante il soggiorno in un campeggio estivo che ospita ragazzi con disabilità) e soprattutto Il Mio Amico in Fondo al Mare (premiato invece ai BAFTA e a sua volta molto quotato), nel quale si racconta l’insolita amicizia tra il documentarista sudafricano Craig Foster e un polpo femmina da lui incontrato durante una serie di immersioni nell’oceano Atlantico. Ma in cinquina troviamo inoltre il rumeno Collective (già premiato agli European Film Awards), appassionante e a tratti scioccante opera d’inchiesta sul tragico incendio avvenuto in un night-club di Bucarest, che (come suddetto) diventa il secondo film (dopo il macedone Honeyland lo scorso anno) a concorrere come miglior documentario e anche come miglior film internazionale. A sorpresa, chiude infine la cinquina il cileno The Mole Agent (in cui un ottantatreenne, assunto come aiutante di un investigatore privato, si infiltra come talpa all’interno di una casa di riposo per far luce sulle condizioni dei residenti), che invece manca la candidatura come miglior film internazionale (pur rientrando nella shortlist di finalisti) ma trova comunque spazio in questa categoria. Inaspettatamente, quest’ultimo film soffia la candidatura non solo ai già citati Welcome to Chechnya e All In: The Fight for Democracy, ma anche all’ottimo prodotto Netflix Dick Johnson è Morto, al quotato Boys State e al ben accolto The Truffle Hunters. Fuori dalla competizione anche altri due apprezzati titoli dal respiro internazionale, ovvero il docufilm di co-produzione norvegese Gunda (diretto dal russo Viktor Kossakovsky e girato in bianco e nero, senza dialoghi né umani) e il nostrano Notturno di Gianfranco Rosi (che racconta la dura quotidianità dei popoli sui confini tra Iraq, Kurdistan, Siria e Libano); quest’ultimo, selezionato per rappresentare l’Italia nella corsa all’Oscar come miglior film internazionale, resta quindi completamente escluso dalla competizione, mancando infatti la candidatura non solo nella categoria dedicata appunto alle opere non anglofone, ma (a differenza del precedente lavoro del regista, ovvero il più considerato Fuocoammare) anche in quest’altra, riservata invece alle opere di non-fiction (pur rientrando in questo caso nella shortlist di finalisti).

MIGLIOR CORTOMETRAGGIO

  • Feeling Through (Doug Roland, Susan Ruzenski)
  • The Letter Room (Elvira Lind, Sofia Sondervan)
  • The Present (Farah Nabulsi, Ossama Bawardi)
  • Due Estranei (Travon Free, Martin Desmond Roe)
  • White Eye (Tomer Shushan, Shira Hochman)

MIGLIOR CORTOMETRAGGIO D’ANIMAZIONE

  • La Tana (Madeline Sharafian, Michael Capbarat)
  • Genius Loci (Adrien Mérigeau, Amaury Ovise)
  • Se Succede Qualcosa, Vi Voglio Bene (Will McCormack, Michael Govier)
  • Opera (Erick Oh)
  • Yes-People (Gísli Darri Halldórsson, Arnar Gunnarsson)

MIGLIOR CORTOMETRAGGIO DOCUMENTARIO

  • Colette (Anthony Giacchino, Alice Doyard)
  • A Concerto is a Conversation (Ben Proudfoot, Kris Bowers)
  • Do Not Split (Anders Hammer, Charlotte Cook)
  • Hunger Ward (Skye Fitzgerald, Michael Scheuerman)
  • A Love Song for Latasha (Sophia Nahli Allison, Janice Duncan)

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