La Passione di Giovanna d’Arco

La Passione di Giovanna d’Arco

Tra i numerosi film dedicati alla figura di Giovanna d’Arco (tra i quali, oltre al precedente di De Mille, spiccano soprattutto i successivi di Rossellini, Bresson e Rivette), il nono lungometraggio di Dreyer resta certamente il più celebre e significativo, rappresentando non soltanto una tappa chiave nel suo rimarchevole itinerario, ma anche una delle più alte ed importanti vette del muto, nonché uno dei massimi risultati dell’espressionismo al cinema.

A tal proposito, mentre in contesto tedesco la corrente si fondava su una resa prevalentemente onirica ottenuta tramite una plasticità deformante e innaturale (si vedano gli esemplari capolavori Il Gabinetto del Dottor Caligari e Nosferatu il Vampiro), l’avanguardia francese si concentrava invece su un’introspezione psicologica di matrice più impressionista coadiuvata anche dalla coeva affermazione della cosiddetta “fotogenia” (cui contribuirono in maniera determinante i lavori di Epstein e Delluc). Implementando le componenti di entrambi gli approcci (sulla scia dell’innovativa elaborazione attuata nel frattempo, tra gli altri, anche da Gance nel suo notevole Napoleone), il regista danese (non a caso per la prima volta in trasferta francese) offre un ulteriore e fondamentale contributo a tale generale ricerca di emotività visiva attraverso una sorta di mirabile studio su schermo delle potenzialità espressive del volto umano: infatti, puntando su un ricorso quasi ossessivo al primo piano, Dreyer fonda la messinscena sul viso della protagonista, sublimandone l’estasi visionaria in un ispirato mosaico di sguardi che, composto da inquadrature di virtuosistica dinamicità (coadiuvate dalla fotografia di Rudolph Maté e dal serrato montaggio cui fa capo anche una cadenza delle didascalie talmente equilibrata da offrire una parvenza di dialogo), ne scandisce il percorso interiore in un trascinante crescendo di dolorosa intensità, divenendo così specchio del suo tormento e del suo destino; in ciò, condensando la nota vicenda (ovvero il processo, la tortura con successivo rifiuto di firmare l’abiura e la conseguente condanna al rogo) in un’unica giornata (il 30 maggio 1431) e riducendo la ricostruzione storica ad essenziali elementi scenografici di mirata e pregnante valenza simbolica, il regista si attiene ad un’unità di spazio e di tempo per calare tale rappresentazione puramente emozionale in una dimensione sospesa e quasi metafisica che, prescindendo appunto dal contesto, è quindi elevata ad esperienza assoluta e universale. A tal proposito, notoriamente emblematico è il sentito omaggio che, quasi 35 anni più tardi, Godard gli dedicò nella celebre sequenza del suo bellissimo Questa è la Mia Vita in cui Anna Karina assiste proprio alla proiezione di quest’opera, mostrandosi profondamente coinvolta e commossa dall’interpretazione della straordinaria protagonista Renée Falconetti (qui al suo ultimo e più importante ruolo per il cinema); perché, in tutto ciò, l’imperitura capacità di trasmettere un pathos che resta appunto autentico e assoluto è veicolata anche e soprattutto dalla sua memorabile performance (a cui l’attrice si dedicò con tale viscerale adesione da restare profondamente scossa), entrata appunto di diritto nell’immaginario collettivo come cuore pulsante di un’opera che a sua volta ebbe un destino assai travagliato: presentato per la prima volta a Copenaghen nel 1928 (unica occasione in cui fu proiettato nella sua versione integrale da 110 minuti), scatenò da subito diverse polemiche da parte delle istituzioni statali e religiose, che imposero numerosi tagli, ritardando la distribuzione francese; infatti, solo alcuni mesi più tardi il film debuttò finalmente a Parigi, ma nello stesso anno il negativo originale fu distrutto in un incendio scoppiato nei laboratori dell’UFA; Dreyer allora lo rimontò utilizzando spezzoni scartati dal primo montaggio, ma anche questa edizione finì fatalmente bruciata; nel 1933 se ne realizzò quindi una terza versione (della durata di circa un’ora e priva di didascalie), ma le precedenti rimasero pressoché introvabili fino al 1951, quando lo storico del cinema Joseph-Marie Lo Duca rinvenne nei sotterranei dei Gaumont Studios una copia della seconda, che in seguito rimontò in maniera piuttosto discutibile (eseguendo pesanti modifiche e aggiungendo un accompagnamento musicale con brani di Bach, Vivaldi, Albinoni e Scarlatti); per molti anni tale storpiata edizione da 85 minuti fu erroneamente considerata quella originale, anche se in seguito il Danish Film Institute tentò di eseguire una ricostruzione più fedele attingendo a materiali di diversa provenienza; solo nel 1981, in un istituto psichiatrico di Oslo, fu fortuitamente ritrovata una copia del primo negativo (non censurato e creduto definitivamente perduto), che fu quindi sottoposto ad un lungo e non facile restauro, dando finalmente origine (tre anni più tardi) ad una definitiva versione più completa dell’opera (con didascalie tradotte e una frequenza riportata a 24 fotogrammi al secondo), in seguito distribuita anche in Home Video).

La Passione di Giovanna d'Arco
La Passione di Giovanna d'Arco
Summary
“La Passion de Jeanne d’Arc”; di CARL THEODOR DREYER; con RENEE FALCONETTI, EUGENE SILVAIN, MICHEL SIMON, MAURICE STUTZ, ANTONIN ARTAUD, LOUIS RAVET; drammatico; Francia, 1928; B/N; durata: 85’;
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