Rashomon

Rashomon

- in Akira Kurosawa, Anni 50, Recensioni
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Kyoto, tardo periodo Heian (intorno al XII secolo). Durante un temporale, un bonzo, un boscaiolo e un passante trovano riparo sotto la porta in rovina di Rasho e discutono di una drammatica e sanguinosa vicenda recentemente giudicata da un tribunale: in una foresta, un bandito avrebbe violentato la moglie di un samurai per poi battersi con quest’ultimo a duello e infine ucciderlo. Alle versioni del presunto omicida e della donna segue una terza offerta dallo spirito del samurai evocato da una medium, ma in seguito il boscaiolo dichiara di aver assistito all’omicidio e racconta quindi tale testimonianza, anch’essa differente rispetto alle precedenti.

Intitolato come una delle prime novelle dello scrittore e poeta Ryūnosuke Akutagawa ma in realtà basato principalmente sul suo successivo e più maturo racconto “Nel Bosco” (a sua volta ispirato ad un’antica antologia buddhista e ai più recenti scritti dell’americano Ambrose Bierce), è il celebre, imperdibile film di Kurosawa che, girato a basso costo e inizialmente poco considerato in patria, riuscì ad imporsi in Europa aggiudicandosi a sorpresa il Leone d’Oro al festival di Venezia, evento che contribuì a consacrare definitivamente l’autore (ma anche il suo attore feticcio Toshirō Mifune) e ad aprire al cinema nipponico le porte dei circuiti internazionali. Dodicesimo lungometraggio del grande regista giapponese (anche co-sceneggiatore insieme all’assiduo collaboratore Shinobu Hashimoto), a livello narrativo si articola su una magistrale costruzione a flashback strutturata su differenti piani spazio-temporali (un presente ambientato sotto la porta del titolo, un passato prossimo nel cortile del tribunale e uno più remoto che si svolge nel bosco) per raccontare lo stesso episodio dai diversi punti di vista dei personaggi coinvolti ed offrirne così altrettante versioni discordanti, nessuna delle quali (compresa la quarta testimonianza) appare però totalmente affidabile; così, facendo leva sulle contraddizioni della coscienza connesse all’umana inadeguatezza morale di fronte al caos dell’esistenza, questo arcano racconto a più voci di un drammatico mistero assurge ad apologo intenso ed allusivo (nella sua densità di metafore e simbolismi) sull’enigmatica indeterminabilità del reale e quindi sulle contrapposizioni tra obiettività e soggettività, pregnante e complesso cumulo tematico (non a caso prestatosi nel tempo a varie interpretazioni) innestato in una scrittura stilistica coerentemente polifonica; perché, pur guardando al cinema muto nel minimalismo scenografico, nella recitazione espressionista e nella fotografia (i contrasti tra luci ed ombre che, diversificando le visioni, rimandano a quelli dicotomici tra bene e male, verità e menzogna), tale approccio si rivela al contempo innovativo per il barocco virtuosismo della messa in scena, rigorosa nell’impianto (le immagini geometriche che fanno il paio con la struttura circolare a sua volta musicalmente richiamata dal Bolero che la scandisce) quanto dinamica nell’azione (coadiuvata anche dal serrato montaggio ad opera dello stesso regista): un’audace stratificazione che, estendendosi dal piano formale a quello ideologico e contenutistico, fa capo anche ad un’inconsueta combinazione tra tradizione orientale (dalle influenze teatrali alla densità di simbolismi) e influenze occidentali, attraverso la quale l’autore eleva ad armoniosa, personale e folgorante identità espressiva una florida e sapiente contaminazione tra le diverse componenti non solo (come suddetto) cinematografiche, ma anche storiche (il contesto giapponese di amara sconfitta che rievoca quello del dopoguerra) e letterarie (dal relativismo di Pirandello al soggettivismo di Faulkner); a tal proposito, emblematico è anche il catartico epilogo che (non a caso alterato rispetto a quello del testo d’origine), pur mitigando il comunque radicale pessimismo di fondo nel tenere aperta la possibilità di un riscatto finale (come dimostra la decisione finale del boscaiolo), non risulta tuttavia retoricamente apologetico, bensì sentitamente umanista. Fonte di ispirazione per successive generazioni di registi (non solo orientali) e oggetto di una notevole varietà di omaggi, parodie e rivisitazioni (tra cui il tuttavia poco apprezzato “L’Oltraggio”, remake hollywoodiano in chiave western diretto nel 1964 da Martin Ritt), oltre al succitato riconoscimento a Venezia questo autentico capolavoro ottenne successivamente anche un Oscar speciale come miglior film straniero, assegnato come premio onorario sette anni prima dell’istituzione ufficiale di tale categoria.

Rashomon
Rashomon
Summary
id.; di AKIRA KUROSAWA; con TOSHIRO MIFUNE, MACHIKO KYO, MASAYUKI MORI, TAKASHI SHIMURA, MINORU CHIAKI, KICHIJIRO UEDA, FUMIKO HOMNA, DAISUKE KATO; drammatico; Giappone, 1950; B/N; durata: 88’;
100 %
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