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- in Film 2017, Recensioni
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Sette giovani emarginati di Derry, nel Maine, costituiscono quello che è soprannominato il Club dei Perdenti: per un motivo o per l’altro, ognuno di loro è stato infatti escluso dalla società ed è preda di un branco di bulli. Inoltre, tutti quanti hanno visto materializzarsi le proprie paure inconsce sotto forma di un antico e terrificante predatore. Ben presto scopriranno che la loro città è da sempre terreno di caccia di quest’oscura entità, che emerge dalle fognature ogni ventisette anni per cibarsi del terrore che scatena nei bambini per farne le sue prede. Così, facendo gruppo durante un’estate ricca di avvenimenti, i Perdenti si compattano per riuscire a sconfiggere le proprie paure e fermare la serie di omicidi iniziata durante una giornata di pioggia, quando un bambino, nel tentativo di recuperare la sua barchetta di carta, fu risucchiato all’interno di un tombino finendo dritto tra le fauci del terribile clown Pennywise.

A ventisette anni dalla fortunata miniserie televisiva diretta da Tommy Lee Wallace con Tim Curry nel ruolo del pagliaccio assassino, il celebre romanzo di Stephen King approda ora sul grande schermo in una nuova trasposizione concepita come un dittico cinematografico di cui questa è infatti la prima parte in cui si racconta la nascita e l’evoluzione dell’amicizia tra i piccoli protagonisti ancora bambini, a cui seguirà una seconda (già annunciata) con gli stessi in età adulta ritrovatisi a scontrarsi nuovamente l’ormai iconico Pennywise. Anche a questo proposito, più che un vero e proprio racconto di terrore questa nuova versione della prima metà del libro si presenta quindi piuttosto innanzitutto come una storia di formazione in salsa fanta-horror nella quale, in linea con il materiale d’origine, la paura si dipana irrompendo a sprazzi con evidenti implicazioni allegoriche: nello scatenare le angosce latenti di ciascuno dei protagonisti, la centrale figura dello spaventoso clown (maschera che, nella sua variopinta e imprevedibile estraneità, ha nel tempo non a caso assunto nell’immaginario una connotazione macabra ed inquietante) incarna infatti il male del mondo che, talvolta in agguato tra le pieghe di una società di ipocrita perbenismo, tutti arrivano a conoscere e a dover affrontare proprio nel passaggio tra l’infanzia e l’età adulta. Nell’inquadrare questo cruciale sviluppo da sempre comune e universale che come tale accomuna diverse generazioni, il nuovo It punta perciò a far la presa su un pubblico più vasto combinando alcune radicate suggestioni vintage (come dimostra anche il piuttosto ridotto e ben dosato ricorso al CGI) agli stilemi del nuovo e più concreto cinema horror (senza farsi mancare ad esempio gli inevitabili “jump scares”), il tutto cercando di preservare e restituire su schermo lo spirito della prosa di King; guardando così a un preciso immaginario a essa legato ma tenendo comunque presente al tempo stesso le successive evoluzioni di pubblico e linguaggio, il film si pone quindi tra il realismo magico di un cult come Stand by Me (altro derivato dalla penna dello scrittore) e il gusto rétro del nuovo fenomeno Netflix Stranger Things, trovando una sintesi riuscita ed equilibrata nel cavalcare con attenta consapevolezza (pur non priva di una certa furbizia) l’ondata di revival anni Ottanta ultimamente assai in voga. Anche per questo risulta piuttosto calzante l’intuizione di trasferire questa prima parte della vicenda dagli anni Cinquanta (epoca in cui si svolgeva nel libro) proprio ai mitici Ottanta, facendo leva su un effetto nostalgico che comunque non si riduce peraltro soltanto ad un semplice gioco di citazioni e ricalchi, anche perché il ricorso a omaggi e riferimenti è studiato altresì in funzione di un avveduto aggiornamento degli elementi al contesto odierno: nel favorire l’immedesimazione della scorsa generazione di ragazzi cresciuti a pane e Spielberg, il film cerca infatti al contempo di coinvolgere quella nuova che ha riscoperto e si è appassionata tali miti, puntando ad un ricongiungimento che probabilmente troverà definitivo compimento nel prossimo e conclusivo capitolo in ambientazione contemporanea. In tutto ciò, pur semplificando e a tratti edulcorando il corposo materiale d’origine, la sceneggiatura co-firmata da Cary Fukunaga (che in un primo tempo avrebbe dovuto anche dirigerlo) vi si attiene comunque con una certa fedeltà nonostante qualche altra più lieve modifica e alcune omissioni (o forse soltanto rimandando tali approfondimenti alla seconda parte), mentre l’argentino Andrés Muschietti (assoldato come regista sulla scia del successo ottenuto con il precedente esordio La Madre) ne asseconda propositi e contenuti mettendola in scena con solido mestiere e sagace abilità. Un’operazione accolta infatti peraltro benissimo dal pubblico di adepti e neofiti che (come denota l’ottimo risultato al botteghino) non è rimasto deluso dalla nuova chiamata a scoprire o rivivere lo scontro tra gli adorabili, spiritosi e coraggiosi “Perdenti” (ben delineati dal nutrito gruppo di giovanissimi attori) e il famelico Pennywise, spauracchio che non attende a manifestarsi per tornare e continuare progressivamente a incutere timore: ad interpretarlo è questa volta il giovane svedese Bill Skarsgård, il quale, nel raccogliere la difficile eredità del succitato Curry, non sfigura affatto nello sfruttare l’iconica aura del personaggio riuscendo a renderne (anche attraverso un ottimo lavoro di mimica sorretto dal fondamentale trucco all’altezza) l’inquietante senso di minaccia e la terrificante natura maligna in ognuna delle sue accortamente centellinate apparizioni ad effetto.

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Summary
id.; di Andrés Muschietti; con Bill Skarsgård, Jaeden Lieberhed, Owen Teague, Finn Wolfhard, Wyatt Oleff, Jeremy Ray Taylor, Sophia Lillis, Jack Grazer, Chosen Jacobs, Javier Botet, Nicholas Hamilton, Steven Williams, Jackson Robert Scott; horror; USA, 2017; durata: 135'.
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