Vizio di Forma

Vizio di Forma

Los Angeles, 1970. Il detective privato tossicomane Larry “Doc” Sportello (Joaquin Phoenix) riceve la visita inaspettata della sua ex ragazza Stasha (Katherine Waterston), tornata da lui come un fantasma del passato per chiedergli aiuto nella risoluzione di un caso: il miliardario magnate dell’immobiliare con cui attualmente la donna ha una relazione è infatti pericolosamente invischiato nei loschi piani di sua moglie e dell’amante di quest’ultima. Cercando di sbrogliare la matassa, Sportello si troverà coinvolto in una girandola di situazioni bizzarre ed incontri stravaganti.

Imbarcandosi con immensa, quasi folle ambizione nell’agognata quanto rischiosa impresa di trasferire per la prima volta su schermo la densa scrittura labirintica di Thomas Pynchon, considerato uno dei massimi esponenti della letteratura postmoderna statunitense (peraltro così misterioso ed enigmatico da contendersi con Salinger la palma di scrittore americano più elusivo), al suo settimo film il grande Paul Thomas Anderson scarta l’idea di adattare l’estremamente ostico “Vineland” (1990), optando invece per il più accessibile (ma comunque intricato) “Vizio di Forma” (2009). Nello sfrondare un romanzo di tale portata, pur concedendosi obbligate licenze che vanno da mirate scelte narrative (il finale alterato) a più o meno rilevanti modifiche strutturali (tra cui quella di affidare al personaggio di Sortilége il ruolo di narratore interno), l’acclamato regista e sceneggiatore californiano è mirabilmente riuscito nell’audace operazione, dimostrandosi capace non solo di evitare i manierismi e le trappole retorico-didascaliche, ma anche e soprattutto di preservare lo spirito e l’identità del testo d’origine. L’impronta è quella di un hard-boiled alla Raymond Chandler che però, impregnato di risvolti burleschi e suggestioni psichedeliche, sfugge alla costruzione tradizionale e ai topoi classici del noir per seguire piuttosto l’andamento di un trip ipnotico e quasi onirico di cui ha il ritmo ora sincopato ora estatico, l’atmosfera allucinata, la pienezza di immagini, la struttura ellittica quasi incurante dei raccordi esplicativi; nel suo magmatico flusso di situazioni e personaggi, lo svolgimento procede anche piuttosto fluidamente, eppure, attraverso continui cambi di registro, quel filo conduttore che dovrebbe legare i tasselli di questa storia contorta e stratificata si fa progressivamente sempre più evanescente; sullo sfondo di una Los Angeles assolata, elettrica e quasi surreale illuminata da luci al neon, immersa in colori shocking (ottima fotografia di Robert Elswit) e commentata dalla calzante colonna musicale di Jonny Greenwood, si muove così una quantità soverchiante di bizzarre figure atipiche le quali, pittoresche già dai nomi, contano più dell’intrigo e meno dell’approccio: dall’investigatore hippie Sportello, inconsapevole antieroe vittima degli eventi (un grande Phoenix), alle due donne tra le quali si trova diviso (ovvero l’innamorata perduta Shasta dell’ottima Waterston e la procuratrice Kimball di Reese Witherspoon), dal sassofonista in incognito Coy Harlingen (Owen Wilson) all’avvocato Sancho (Del Toro), dall’ispettore Bigfoot di un magnetico Josh Brolin fino al dentista schizzato e cocainomane di un Martin Short da antologia, gli stravaganti protagonisti che lo animano si trovano e si scambiano, si impongono e si perdono, mentre la narrazione procede filtrata ed inglobata in un ondivago flusso audiovisivo che rispecchia i moti e gli umori dell’intricata vicenda. Complesso ed enigmatico, coerentemente con il romanzo da cui è tratto, Vizio di Forma resta quindi un film di genere ibrido e difficilmente inquadrabile che, rovesciando i nodi mentali di The Master nelle atmosfere alla Boogie Nights, affonda le radici nel noir e nel grottesco per scardinarne appunto gli stilemi e puntare ad una sorta di riedizione sotto acido delle detective stories chandleriane e hammettiane attraverso una schizoide contaminazione di generi ottenuta da un personalissimo cortocircuito tra le trame alla Hawks (Il Grande Sonno), l’impronta alla Altman (specialmente Il Lungo Addio, ma non solo), i deliri caotici dei fratelli Coen (in alcuni passaggi può tornare alla mente Il Grande Lebowski) e i passaggi allucinati alla Lynch (le “strade perdute” di Mulholland Drive). Densissimo eppure frammentato, ipnotico e quasi psichedelico, è un film che rifiuta le scene madri e sfugge alla logica del racconto tradizionale ma non risulta arbitrario né insensato anche perché possiede un’impronta stilistica e un’omogeneità tematica che, nel restituire come suddetto l’identità della prosa di Pynchon, al contempo lo mantengono in linea con l’itinerario di Anderson; infatti, nel tornare per certi versi al racconto profondamente corale alla Magnolia (che da sempre trova nel succitato Altman uno dei suoi numi tutelari), l’autore rimane coerente con se stesso continuando frattanto a portare avanti il suo acuto e personalissimo discorso analitico sulle spirali mentali in cui si avvolge la società americana: dopo le trasgressioni del cinema porno come chiave di lettura dei libertari Anni ’70 (Boogie Nights), le brame di un folle eroe negativo come specchio dei distruttivi effetti dell’epopea capitalista (Il Petroliere) e i plagi di saccenti predicatori come riprova della schizoide debolezza dell’animo umano in balia di una nazione in ginocchio (The Master), ora Anderson attraversa i trip mentali di Pynchon per raccontare di una società in confusa e convulsa transizione, contesa tra Nixon e Charles Manson, in cui le speranze dei libertari moti sessantottini si stanno dissolvendo nel riflusso tumultuoso di un futuro decisamente incerto, mentre la scanzonata allegria del sogno utopico di libertà sta sfumando in un decadente senso di paranoia permeato di disillusione e ideali infranti. Non per niente, lo pervade un senso di dilagante malinconia nostalgica che peraltro ben si integra, si rispecchia e si manifesta nell’obliqua suggestione della lisergica messa in scena. In tutto ciò, confermando ulteriormente il notevole talento di Anderson, autore vero di grande interesse e necessaria rilevanza nel cinema americano contemporaneo, Vizio di Forma si impone come un’opera consapevole dei suoi eccessi che come tale affascina, inquieta, confonde e abbacina, il tutto senza paura di osare e di stravolgere, contando magari su spettatori complici. Solo 2 candidature agli Oscar (migliore sceneggiatura non originale e migliori costumi a Mark Bridges), ma d’altra parte, davanti ad una trama estremamente criptica e stratificata ed un estro così personale ed atipico nell’odierno panorama cinematografico statunitense, non c’è da stupirsi che i tradizionalisti soci dell’Academy, così come anche il grande pubblico devoto all’immediatezza hollywoodiana, si siano trovati spiazzati. Titolo italiano poco attinente anche perché infedele all’originale, che intende invece rifarsi al gergo legale (con l’espressione “vizio intrinseco” si identificano quegli errori irreparabili che possono invalidare le procedure assicurative) per diventare al contempo una chiara metafora sull’irrecuperabilità dei personaggi e sulla cavillosità delle situazioni.

Vizio di forma
Vizio di forma
Summary
“Inherent Vice”; di Paul Thomas Anderson; con Joaquin Phoenix, Josh Brolin, Owen Wilson, Katherine Waterston, Reese Witherspoon, Benicio Del Toro, Jena Malone, Martin Short, Joanna Newsom, Maya Rudolph, Eric Roberts, Serena Scott Thomas, Michael K. Williams, Jeannie Berlin; USA, 2014; durata: 148’.
80 %
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