Tre Manifesti a Ebbing, Missouri

Tre Manifesti a Ebbing, Missouri

- in Film 2017, Recensioni
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Alcuni mesi dopo l’omicidio della figlia rimasto nel frattempo irrisolto, la risoluta Mildred Hayes (Frances McDormand) decide di smuovere le autorità commissionando tre manifesti alle porte della sua città del Missouri, ognuno dei quali grida un messaggio preciso e provocatorio indirizzato a William Willoughby (Woody Harrelson), venerato capo della polizia locale. Quando però nella vicenda si trova coinvolto anche il secondo ufficiale Dixon (Sam Rockwell), ragazzo immaturo e dal temperamento violento, lo scontro tra Mildred e le forze dell’ordine di Ebbing si inasprisce ulteriormente, sfociando in una vera e propria battaglia.

Già premiato con l’Oscar nel 2004 per il corto Six Shooter ma fattosi notare qualche anno più tardi con il notevole lungometraggio d’esordio In Bruges, dopo il meno efficace 7 Psicopatici il regista e sceneggiatore inglese di origini irlandesi Martin McDonagh fa di nuovo centro con questo imperdibile dramma in toni da thriller e venato di humour nero che affonda le radici in quella profonda realtà americana spesso analogamente raccontata dai Coen, peraltro esplicitamente richiamati anche dalla presenza di due grandi habitué del loro cinema come il musicista Carter Burwell e la protagonista Frances McDormand. Eppure, nonostante tali inevitabili rimandi alle opere dei fratelli autori, appare presto chiaro come McDonagh, pur non a caso spesso associato anche a Tarantino, non punti comunque a ricavarne soltanto un banale derivato, imboccando piuttosto una strada propria per perseguire un approccio che, già presente anche nei suoi film precedenti, si rivela invece infatti sempre più personale. Mescolando appunto tali influenze cinematografiche, l’autore le rielabora quindi applicandovi la sua fruttuosa esperienza in teatro da cui proviene per portare avanti una contaminazione di toni e di generi che, guardando alle situazioni di Beckett ma virando verso la minaccia di Pinter, coniuga dark comedy e tragedia classica con lo snodo da neo-noir postmoderno (non privo di suggestioni western) come innesco e motore per una dura e schietta rappresentazione di quell’America conservatrice, settaria e intollerante che ha vinto le ultime elezioni. Perché le azioni e le reazioni che scandiscono la centrale crociata dell’indomita Mildred, rabbiosa quanto disperata nel suo reagire alla colpa e al dolore rivelandosi nemica di chiunque come anche di se stessa, divengono infatti specchio dell’inconscio collettivo di una società che, nel covare un odio quasi primordiale radicato in vecchie ostilità o nuovi risentimenti espressi nelle forme più disparate, cerca costantemente un colpevole o un capro espiatorio alimentando così rancori mai sopiti e un’assurda violenza autodistruttiva davanti alla quale peraltro qualsiasi forma di giustizia pare impotente. Così, nell’affrontare di petto diverse tematiche spinose (tra cui quella sempre attuale dell’intolleranza razziale), pur rischiando di restarne scottato (suscitando infatti negli States alcune reazioni contrastanti) l’autore porta sapientemente avanti una stratificata e trascinante scansione drammatica attraverso la quale, mescolando situazioni estreme in bilico tra torbido realismo e paradossale ambiguità, rilancia il racconto, sfaccetta i caratteri e ribalta le possibilità, il tutto con uno stile preciso ed asciutto che non offre né prevede concessioni al “politicamente corretto”: non a caso, in questa notevole e personale variazione del dualismo tra colpa e redenzione, attraversata da un discorso non trascurabile su perdita e vendetta ed interamente giocata sul succitato sottile quanto complesso equilibrio tra ironia ed amarezza, nemmeno il finale apre infatti a messaggi edificanti, rimandando bensì qualsiasi catarsi a dopo i titoli di coda per lasciare in sospeso (su un tragitto che potenzialmente potrebbe estendersi all’America intera) qualsiasi evento che faccia presagire un’umana redenzione o dannazione. Perché infatti, come denotano i percorsi incrociati della protagonista e dei due pur contrapposti antagonisti principali, ovvero il tormentato sceriffo Willoughby (deciso a dimostrare perlomeno di avere un’etica) e lo psicotico agente Dixon (razzista manesco che potrebbe però voler riscattarsi), davanti all’ineluttabilità di un Male ormai abitudinario o perfino immotivato alla fine sta a noi capire se o come andare incontro a sacrifici estremi e dolorosi a seconda della nostra decisione di osteggiarlo o assecondarlo. In tutto ciò, forte di una scrittura sempre brillante con un evidente talento nella stesura dei dialoghi come nel disegno dei personaggi (compresi quelli secondari), McDonagh mette anche in questo a frutto il suo rodaggio in teatro confermandosi ancora una volta un ottimo direttore di attori, qui tutti bravi o bravissimi: tra questi, supportata da due comprimari eccellenti come l’azzeccato Woody Harrelson e l’ancor più funzionale Sam Rockwell, spicca naturalmente la sempre grande Frances McDormand, davvero portentosa nel delineare le molteplici sfumature di questa indimenticabile figura femminile capace di dominare la scena sciorinando con scientifica precisione affilate battute ad effetto e arrivando a travolgere anche solo con un lieve ma decisivo cenno del suo stoico volto scolpito in una maschera di dolore e risentimento. Spiazzante ed impietoso, potente e perturbante, non è insomma certo una sorpresa che, dopo il riconoscimento per la migliore sceneggiatura al festival di Venezia e il recente trionfo ai Golden Globe, questo film già premiatissimo nonché sicuramente tra i migliori dell’anno abbia portato l’attrice a conquistare il suo secondo, meritatissimo Oscar, a cui si aggiunge inoltre una seconda statuetta per miglior attore non protagonista proprio al succitato Rockwell.

Tre Manifesti a Ebbing, Missouri
Tre Manifesti a Ebbing, MIssouri
Summary
"Three Billboards Outside Ebbing, MIssouri"; di Martin McDonagh; con Frances McDormand, Sam Rockwell, Woody Harrelson, Peter Dinklage, Lucas Hedges, Abbie Cornish, John Hawkes; USA/G. B., 2017; durata: 115'.
80 %
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