La Dolce Vita

La Dolce Vita

- in Anni 60, Federico Fellini, Recensioni
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Annoiato giornalista scandalistico e scrittore mancato, il cinico e ormai demotivato Marcello Rubini (Marcello Mastroianni) frequenta gli ambienti della Roma mondana ed intellettuale di via Veneto e dintorni, facendo conoscenze ed esperienze mentre si susseguono eventi e avvenimenti: dalla sua amicizia con il problematico intellettuale Steiner (Alain Cuny) alla visita del vecchio padre vivace (Annibale Ninchi), dall’arrivo della giunonica diva americana Sylvia (Anita Ekberg) all’apparizione della Madonna in una borgata, dall’avvistamento dalla spiaggia di un mostro marino fino all’incontro con un’enigmatica fanciulla.

Dopo il successo de Le Notti di Cabiria, il già premiatissimo Fellini, indeciso sul nuovo progetto da realizzare, riprese a lavorare ad un vecchio trattamento che, originariamente concepito come traccia per un film dedicato alle peripezie romane del co-protagonista de I Vitelloni, in fase di sviluppo divenne invece lo spunto di base per la sceneggiatura (da lui scritta con la collaborazione di Ennio Flaiano, Tullio Pinelli e Brunello Rondi) di questo suo imprescindibile capolavoro: un film che, al di là della risonanza mediatica che ne accompagnò l’impegnativa realizzazione (oltre 6 mesi di riprese tra ricostruzioni in studio, costi lievitati e cambi di produttori), si impose nel panorama cinematografico internazionale non solo come una delle summe della sua poetica (che il regista riuscì ad imporre all’industria, superando appunto la macchina produttiva), ma anche come personale, fulminante e indelebile ritratto di un’epoca. Non a caso, lo stesso Fellini parlò di “rotocalco in pellicola” riferendosi a questa sorta di cinegiornale sublimato in affresco epico e come tale elevato a penetrante e magistrale spaccato di vita (che di dolce ha in realtà soltanto l’apparenza) attraverso la personalissima rappresentazione di quella che il regista definì una “Babilonia 2000 anni dopo Cristo”, ovvero una Roma sfavillante quanto squallida, ammaliante eppure nefanda. Perché, nel seguire l’errante itinerario di conoscenze ed esperienze del protagonista, l’autore racconta con profetico acume un’ascesa socio-culturale che, passando dall’avvolgente mondanità di un contesto la cui prosperità si rivela soltanto apparente, finisce per ristagnare in un’infausta e tormentata mancanza di riscatto e redenzione che nemmeno legami, obiettivi, arte o virtù possono colmare (come dimostra inoltre il percorso dell’amico intellettuale Steiner che, nel soccombere a tale inquietudine, finisce per annientare anche le restanti speranze dello stesso Marcello). Tutto ciò costituisce il fondale rutilante, vivido eppure pressoché inerme che avvolge e culla il lisergico fluire di situazioni, maschere e figure a loro modo emblematiche di un contesto sociale rinnovato eppure già deteriorato, saturato dallo sfruttamento dei media e affossato da aspirazioni irrisolte e amaro disincanto: uno scenario di cambiamenti e contraddizioni (ovvero un’Italia emersa da dolorosi trascorsi e ormai verso il pieno del boom economico) indelebilmente ritratto in un’opera che, divenuta simbolo e manifesto di un’epoca, si impone non solo come un fondamentale passaggio di transizione nell’itinerario di Fellini, costituendo infatti anche un cruciale spartiacque per l’intero panorama cinematografico italiano; infatti, superato il neorealismo (ormai non più consono al ritratto di una società in evoluzione), lo sguardo del regista si estende dai tormenti di un’umanità ai margini a quelli di un’alta borghesia che, febbrile quanto disillusa, si perde nella mestizia di un’esistenza insensata, paradosso richiamato anche dalla conforme scrittura stilistica con cui, attraverso la controcorrente struttura a blocchi snodata con un tono rapsodico tra idillio sbiadito e incubo grottesco non privo di allusioni simboliche, l’autore cala il tutto in quella dimensione sospesa e appunto quasi onirica distintiva della sua poetica che qui fa capo ad una rappresentazione della realtà reinventata e soggettiva eppure indelebilmente lucida e autentica. Da subito (come suddetto) oggetto di una clamorosa attenzione mediatica che (per l’impietosa resa su schermo della trasgressiva perdita di fiducia in valori ed istituzioni) sfociò in uno scandalo politico ed ecclesiastico, in seguito il film divenne un vero e proprio fenomeno di costume e un successo planetario (lanciando anche su scala internazionale il termine “paparazzo”); un trionfo coronato da 3 Nastri d’Argento in patria, un Oscar ai costumi di Piero Gherardi (su 4 candidature, tra cui miglior regia e sceneggiatura) e la Palma d’Oro a Cannes assegnata dalla giuria presieduta da Georges Simenon, il quale (grande sostenitore dell’opera) affermò: “L’uomo di oggi non è sempre disposto a riconoscersi, e Fellini lo obbliga a farlo suo malgrado”.

La Dolce Vita
La Dolce Vita
Summary
id.; di FEDERICO FELLINI; con MARCELLO MASTROIANNI, ANITA EKBERG, AINOUK AIMEE, YVONNE FOURNEAUX, ALAIN CUNY, LAURA BETTI, ANNIBALE NINCHI; drammatico; Italia, 1960; B/N; durata: 173’;
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