Abbas Kiarostami (1940-2016)

Abbas Kiarostami (1940-2016)

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Due giorni dopo la dipartita di Michael Cimino, un altro lutto ha colpito il mondo del cinema: è infatti scomparso all’età di 76 anni il grande regista Abbas Kiarostami, esponente di prim’ordine del cinema iraniano e considerato uno dei più importanti autori internazionali.

Le sue opere (fondate su un sentimento morale dello sguardo e popolate da personaggi semplici spesso colti nel loro quotidiano) restano un raro esempio di coerenza stilistica, in cui l’autore seppe unire rigore espressivo e libertà creativa instaurando un’affascinante e personalissima dialettica tra sogno e realtà: con uno sguardo da fine documentarista (anche se mai moralizzatore) capace di concedersi ispirati scarti poetici, riservò sempre una grande attenzione alla ricerca della verità, raccontando il difficile contesto dell’Iran contemporaneo indagando al tempo stesso sui processi di finzione cinematografica attraverso una tensione metalinguistica sempre mirata ed emozionante. Contrariamente a quanto fecero molti artisti suoi connazionali, dopo la rivoluzione khomeinista del 1979 decise di rimanere nel suo Paese, dove diresse oltre 40 pellicole: privilegiando figure e tematiche infantili per poi adottare uno linguaggio più audace ed allusivo, Kiarostami riuscì infatti a realizzare gran parte delle sue opere all’interno del draconiano Iran, aggirando i severissimi divieti della censura ricorrendo ad un’accorta ed ispirata estremizzazione dell’uso della metafora.

Nato a Teheran nel 1940, dopo la laurea in Belle Arti lavora come illustratore di libri per l’infanzia fino al 1960, quando viene assunto alla Tabli Film (la principale casa di produzione iraniana di film pubblicitari) girando in seguito oltre 150 spot per la televisione di Stato. Nel 1969 il direttore del Kanun (Istituto per lo sviluppo intellettuale dei giovani e degli adolescenti) lo chiama a collaborare alla creazione della sezione cinematografica, dove Kiarostami ha la possibilità di realizzare Il Pane e il Vicolo (1970) sua prima esperienza come regista. Fino al 1983 il regista si dedica alla realizzazione di documentari pedagogici, piccole parabole morali in cui è già evidente la sua intensa sottigliezza nel coniugare il potere della fascinazione filmica con la partecipe osservazione delle emozioni infantili. Tale sguardo sincero sui bambini (già evidente nei succitati documentari come anche nei successivi cortometraggi ispirati al Neorealismo) caratterizzerà in maniera decisiva specialmente la prima parte della sua filmografia. Ciò è evidente fin dal suo esordio nel lungometraggio, realizzato nel 1974 ed intitolato Il Viaggiatore, in cui il regista racconta gli sforzi di un ragazzino per vedere ad una partita della nazionale iraniana; in quest’opera Kiarostami introduce inoltre la disquisizione a lui cara sul tema della perseveranza: leggibile anche come desiderio di far cinema, tale determinazione appare infatti in destabilizzante contrasto con la rigidità della Iran pre-rivoluzionario in cui si svolge la vicenda. La sensibile attenzione al mondo dell’infanzia è presente anche nel successivo Dov’è la Casa del mio Amico (1987): seguendo le peripezie del piccolo protagonista mentre cerca di restituire il quaderno ad un compagno, Kiarostami racconta di un mondo in cui gli adulti sono indifferenti, ostili o insensibili. In ciò, portando avanti la narrazione attraverso ellissi e simbolismi per concentrarsi piuttosto sull’umanità degli ultimi e dei più deboli (altra costante nel suo cinema), l’autore esalta con delicata poesia un profondo fascino della semplicità da cui deriva quel rappresentativo misticismo che pervaderà e caratterizzerà tutte le sue opere. Il film è il primo dell’ideale trilogia “del terremoto” proseguita con il notevole E la Vita Continua (1992) e conclusa con l’altrettanto importante Sotto gli Ulivi (1994), entrambi mirabili nella dialettica tra realtà e finzione con cui (nel raccontare la complessità dei sentimenti al cospetto di una natura di devastata bellezza) Kiarostami continua ad esporre la sua personalissima quanto esemplare riflessione sulla percezione e sull’etica del fare cinema. Tale leitmotiv espressivo, consolidato anche nei film successivi, è presente anche nel precedente Close-Up (1990), forse il suo film più teorico nonché uno dei più rappresentativi: nel mettere in scena il processo ad un imbroglione spacciatosi per regista, l’autore mescola con pirandelliana ambiguità le caratteristiche di fiction e documentario ottenendo un resoconto sognante ed insieme autocritico sul potere dell’illusione filmica come filtro per rappresentare una realtà troppo complessa. Il ricorso al metacinema come mezzo per sottolineare la finzione del racconto è presente a suo modo (specie nel finale) anche nel bellissimo Il Sapore della Ciliegia (premiato nel 1997 con la Palma d’Oro al festival di Cannes), assorta meditazione sulla vita come scelta etica in cui Kiarostami conferma nuovamente l’esemplare trasparenza e l’autentica intensità del suo stile raccontando l’ossessivo girovagare di un uomo in cerca di qualcuno che lo aiuti a suicidarsi. Nel 1999 è invece la volta del bellissimo Il Vento ci Porterà Via, in cui il protagonista si trova immerso nei ritmi di vita ancestrali di un villaggio del Kurdistan iraniano dove si è recato per documentare un caratteristico rito funebre: anche in questo caso, attraverso una trama di limpida essenzialità (snodata attraverso una sapiente costruzione ellittica ricca come al solito di simbolismi e cadenzata da vibranti attese che richiedono spettatori complici), l’autore accorpa nuovamente molteplici tematiche a lui care (la potenza della natura che respinge la manipolazione dei media e della modernità) riproponendo la sua impronta stilistico-espressiva in una rapsodica elegia della resistenza di grande fascino visivo. Tale cifra stilistica, sempre fedele all’usuale semplicità nonché caratterizzata da specifici modelli poetici ed ispirate allusioni metaforiche, si fa ancora più astratta e rarefatta nelle opere successive: nel minimalista Dieci (2002), girato interamente all’interno di un’automobile, agli usuali pianisequenza il regista preferisce questa volta pochi campi alternati per registrare gli incontri che scandiscono l’inquieto vagare per le strade di Teheran della protagonista al volante (una pittrice emancipata ed instancabile), interpellando lo sguardo dello spettatore per renderlo così partecipe di una lucida riflessione sulla condizione della donna iraniana. In seguito, sulla scia del precedente documentario ABC Africa (il suo primo film realizzato fuori dall’Iran), l’autore torna infine a trasferire il suo intenso sguardo anche all’estero, prima in Italia con il notevole Copia Conforme (2010) e poi in Giappone con il suo film testamento Qualcuno da Amare (2012), suo film testamento che si rivelò però uno dei meno acclamati: se in quest’ultimo, nonostante la grande ricercatezza formale, la ricerca di un linguaggio più sperimentale appare infatti meno congeniale all’estro stilistico e all’esposizione contenutistica, nel precedente (ambientato in Toscana e splendidamente interpretato da una grande Juliette Binoche) Kiarostami trova invece una chiave interessante per proporre una nuova riflessione sul potere dell’illusione, rimescolando gli elementi della trama anche per ragionare al tempo stesso sulla difficoltà di arrivare alla verità. Insignito nel 2005 del prestigioso Pardo d’Onore al festival di Locarno, Abbas Kiarostami è morto il 4 Luglio a Parigi, dove si era recato per curare un tumore all’intestino. Tra i suoi estimatori spiccano, tra gli altri, anche numerosi cineasti di spicco come Martin Scorsese, Jean-Luc Godard, Nanni Moretti e Asghar Farhadi; quest’ultimo (suo amico e connazionale), nel ricordarlo ha dichiarato: “Non era solo un filmmaker, ma era un mistico moderno. Ha costruito strade immense per altri cineasti venuti dopo di lui e influenzato diverse generazioni di registi iraniani”.

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